1899: la recensione

Tante buone idee ma anche tanta confusione: 1899 centra solo parzialmente l’obiettivo di coinvolgere lo spettatore e suscitare tensione.

 

 

Negli ultimi anni si stanno affacciando numerose serie che fanno della psicologia, delle pieghe della mente e della fisica quantistica il loro fulcro. Gli autori di Dark, buona produzione di stampo tedesco, hanno realizzato una nuova serie che però non riesce a ripetere pienamente quanto di buono fatto in precedenza.

1899 è ambientato su di un transatlantico in viaggio dall’Inghilterra agli Stati Uniti, dove una moltitudine di personaggi appartenenti alle più varie classi sociali vogliono trasferirsi per iniziare una nuova vita. La nave si imbatte nella gemella, dispersa quattro mesi prima e ora apparentemente deserta; da qui si dipana una storia sicuramente originale ma probabilmente priva di mordente.

 

 

1899 parte molto lentamente. Degli otto episodi che compongono la serie, i primi quattro sono quasi soporiferi; solamente sul finire di ognuno di loro succede qualcosa di anomalo ed inaspettato in grado di colpire lo spettatore. I successivi, invece, vedono un susseguirsi di eventi che pur volendo stupire, non suscitano particolari emozioni in chi vede la serie.

Probabilmente una delle colpe principali di 1899 è lo stile narrativo, sicuramente più monotono di quanto potesse essere stato quello di Dark: se nel primo lavoro di Baran Bo Odar e Jantje Friese infatti gli eventi, anche se difficilmente collegabili, hanno un fascino particolare, in 1899 tutto quel che succede risulta essere piatto, distaccato, e non si crea mai un legame emotivo con lo spettatore.

 

 

Forse il duo tedesco ha tirato troppo la corda, oppure di corda non ne aveva più dopo le tre stagioni di Dark; fatto sta che 1899 non coinvolge, pur volendogli riconoscere delle buone idee che iniziano a manifestarsi (e a spiegarsi) nella seconda parte della serie. I personaggi sono discretamente caratterizzati ma spesso di loro si spiega troppo poco, e se da una parte sembra intuirsi subito chi possa essere il protagonista, dall’altro il tempo speso a delineare i personaggi secondari non riesce comunque a tratteggiarli in modo esaustivo.

Il cast è discreto ma non eccezionale. Una buona prova la fanno Emily Beecham, Aneurin Barnard (Dunkirk), Isabella Wei e Clara Rosager; meno convincente il resto degli attori, a partire da quell’Andreas Pietschmann che in Dark invece ci era piaciuto e dall’insopportabile Lucas Lynggaard Tonnesen già visto nell’improponibile The Rain.

 

 

Folle la scelta di Netflix, nella versione italiana, nel doppiare in modo piatto tutti i protagonisti: per buona parte del tempo infatti costoro parlano nella loro lingua di origine, cosa evidente dalla loro mimica e dal loro tentativo di farsi capire dagli altri passeggeri; nella versione italiana invece sembrano tutti dei beoti che parlano come se di fronte avessero dei ritardati mentali. Che poi ci sarebbe da dire anche sul fatto che dopo poco tutti capiscono tutto quel che dicono gli altri, ma apparentemente gli autori pensano che lo spettatore medio non ci faccia caso.
Dei tempi dettati dalla regia abbiamo detto: mortalmente soporiferi nei primi quattro episodi, discretamente adeguanti nei secondi quattro. Non c’è mai, però, quel guizzo che potrebbe cogliere veramente di sorpresa lo spettatore, se non in alcuni momenti degli ultimi due episodi. Peraltro 1899 lascia un finale parzialmente aperto in vista di una seconda stagione che però probabilmente non arriverà mai: Netflix ha infatti annunciato la sua cancellazione, ed a meno di miracoli la storia, per come immaginata dagli autori, non vedrà mai la sua conclusione.

 

 

Un peccato, perché la trama di base una volta svelata sarebbe anche interessante, ed a parte un paio di inutili e fastidiosi eccessi a sfondo sessuale la cui presenza è immotivata (se non forse compiacere una certa inclusività che su Netflix regna sovrana) la serie è girata con garbo e senza cadute di stile tipiche di altre produzioni.
È pur vero che 1899 è stata accusata di plagio dalla fumettista brasiliana Mary Cagnin: molti dei simboli iconici della serie (dalla piramide nera, che ritroviamo spesso durante le puntate, alle inquadrature, passando per alcuni aspetti della trama) sembrano essere stati presi pari pari dal suo Black Silence, del 2016 (qui la nostra recensione).

 

 

1899 forse poteva, nel tempo, rivelarsi una serie psicologica di discreto spessore; ma è evidente come la prima e probabilmente unica stagione abbia mancato l’obiettivo di catturare adeguatamente l’attenzione di critica e pubblico. Ci troviamo a che fare quindi con un prodotto che preso a sé stante non fornisce reali motivazioni per essere visto, anche se non si può definirlo brutto. Forse il termine corretto è “tralasciabile”, ma vederlo non vi farà rimpiangere le ore passate a farlo.

 

1899, 2022
Voto: 6
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