Cinquemila anni fa, un popolo sconosciuto varcò le steppe euroasiatiche e cambiò per sempre il volto genetico, linguistico e culturale del continente europeo.
Cinquemila anni fa, il volto dell’Europa iniziò a cambiare per sempre. Per millenni, una parte consistente del continente era stata abitata da comunità agricole stanziali che vivevano in villaggi strutturati, con un’economia basata sulla coltivazione dei cereali, l’allevamento di animali domestici e una fitta rete di scambi materiali e culturali. Queste popolazioni appartenevano a quella che gli archeologi chiamano “Vecchia Europa”, una civiltà neolitica che si estendeva tra i Balcani, il bacino del Danubio e gran parte dell’Europa centrale.
Questi villaggi, spesso sorprendentemente grandi per l’epoca, contavano centinaia, forse migliaia di persone, mentre già alcune culture come la Cucuteni-Trypillia vantavano insediamenti che potevano raggiungere dimensioni che sfioravano quelle di una piccola città. Le case, costruite in legno e argilla e disposte in modo ordinato lungo assi centrali, si accompagnavano a strutture che riconosciamo in quelle di forni comunitari, magazzini e forse strutture cerimoniali. L’arte, anch’essa presente, era rappresentata sotto forma di ceramiche dipinte, statuette antropomorfe femminili e motivi simbolici il cui significato, pur sfuggendoci, suggerisce un mondo spirituale ricco e codificato.
Questo modello di vita pacifica e organizzata, almeno nella sua apparenza archeologica, sembrava avere trovato una certa stabilità. Tuttavia, nel corso del IV millennio a.C., le cose iniziarono a cambiare. Segni di tensioni crescenti si evidenziano nelle tracce archeologiche: insediamenti bruciati, declino demografico, contrazione delle aree abitate. Le grandi culture neolitiche balcaniche e danubiane cominciarono a perdere vitalità e a frammentarsi in entità ben più deboli e isolate. Le cause non sono del tutto chiare, ma gli studiosi parlano di una combinazione di fattori: cambiamenti climatici che resero più difficile l’agricoltura in alcune zone, crisi ecologiche legate alla deforestazione e al sovrasfruttamento dei suoli, epidemie, crescenti disuguaglianze sociali interne, e l’inizio di pressioni esterne da parte di popolazioni che si muovevano ai margini del loro mondo. È proprio in questo contesto che fanno la loro comparsa i gruppi originari delle steppe a nord del Mar Nero e del Caspio: le genti della cultura Yamnaia.
Queste popolazioni, che per secoli avevano abitato le distese aperte delle steppe euroasiatiche, vivevano secondo un modello molto diverso da quello agricolo europeo. Erano in prevalenza pastori nomadi, o almeno seminomadi, profondamente legati all’allevamento di bovini, ovini e cavalli. La loro vita era scandita dal movimento e dall’orizzonte aperto: si spostavano con mandrie, tende e famiglie attraverso territori sterminati, adattandosi ai ritmi stagionali e mantenendo una flessibilità che li rendeva più dinamici dei contadini stanziali. L’archeologia ci racconta di tombe monumentali, i cosiddetti kurgan: tumuli funerari sotto cui venivano sepolti uomini adulti con le loro armi, ornamenti e talvolta interi carri. Il fatto che i defunti maschi venissero spesso sepolti da soli, in posizione supina con le ginocchia piegate e la testa orientata a ovest, suggerisce un cambiamento profondo nelle pratiche simboliche rispetto al mondo neolitico. La centralità del guerriero, la trasmissione ereditaria del prestigio e l’ideologia del clan maschile sembrano emergere come nuovi valori dominanti.
Ma cosa portò questi popoli delle steppe a muoversi verso occidente? Anche qui, le ipotesi sembrano essere molteplici. Alcuni archeologi e genetisti ipotizzano che un miglioramento nelle tecnologie della mobilità – soprattutto grazie all’uso del cavallo addomesticato e del carro a due ruote – abbia permesso agli Yamnaia di estendere il loro raggio d’azione ben oltre i limiti tradizionali delle steppe. Il cavallo, probabilmente addomesticato già nel quinto millennio a.C. nelle regioni del basso Volga, diede una spinta decisiva all’efficienza degli spostamenti, sia per la pastorizia che per eventuali incursioni verso nuovi territori inesplorati. Altri sostengono che pressioni demografiche, cambiamenti ecologici nelle steppe o conflitti interni possano aver spinto clan yamnaici a migrare verso nuove terre. Più probabilmente, si trattò di una combinazione di spinte e attrazioni: territori dell’Europa orientale scarsamente abitati, ricchi di pascoli e potenzialmente accessibili, in parte già devastati o svuotati dalle crisi del mondo neolitico.
Tra il 3300 e il 2600 a.C. circa, l’Europa conobbe quindi una delle sue più grandi trasformazioni demografiche e culturali: un arrivo massiccio di queste popolazioni della steppa, che in ondate successive si spinsero prima nei Carpazi e poi nell’Europa centrale e settentrionale. L’evidenza genetica raccolta negli ultimi due decenni ha confermato una trasformazione profonda del DNA degli europei in quel periodo: studi di paleogenetica hanno mostrato come, nel giro di pochi secoli, tra il 60% e il 90% del patrimonio genetico maschile di alcune aree dell’Europa centrale venne sostituito da quello yamnaico. Non si trattò quindi di un’influenza culturale superficiale, ma di una vera e propria transizione di popolazione.
Le culture locali neolitiche vennero infatti in parte inglobate e in parte soppiantate, ma in ogni caso niente della “Vecchia Europa” sopravvisse inalterato. La cultura delle Tombe a Fossa, che si sviluppò in Europa centrale e settentrionale dopo il 2800 a.C, mostra evidenti segni di continuità genetica e culturale con il mondo yamnaico; e allo stesso tempo incorpora elementi europei preesistenti, segno che la transizione non fu necessariamente solo violenta, ma anche fatta di adattamenti, scambi e ibridazioni.
Uno degli aspetti più affascinanti di questa trasformazione è la questione linguistica. Molti studiosi vedono negli Yamnaia i probabili portatori delle prime lingue indoeuropee, un’ipotesi oggi sostenuta da un ampio consenso anche grazie ai dati genetici. La cosiddetta “ipotesi della steppa”, formulata inizialmente da Marija Gimbutas e poi confermata in parte dalle ricerche genomiche, sostiene che il nucleo originario delle lingue indoeuropee – un insieme che oggi comprende quasi tutte le lingue europee (eccetto il basco, il finlandese, l’estone e l’ungherese) oltre a molte lingue asiatiche come il sanscrito, il persiano o il greco antico – si sia sviluppato proprio tra le popolazioni yamnaiche o proto-yamnaiche, e che si sia diffuso verso ovest con queste migrazioni. La diffusione delle lingue sarebbe dunque avvenuta insieme al movimento delle popolazioni, portando con sé non solo parole ma anche strutture sociali, categorie mentali, cosmologie.
Questa transizione non va però letta solo in termini di conquista o di superiorità. È più corretto parlare di un rimescolamento profondo, dove un sistema di vita fondato sul movimento, sul clan, sulla pastorizia e sul simbolismo guerriero prese il posto – o si sovrappose – a una civiltà agricola più sedentaria, basata su cicli stagionali e comunità locali. Ciò che nacque da questo incontro fu una nuova cultura che pose le basi per tutti gli avvenimenti della successiva storia europea. È infatti l’Europa il punto centrale in cui si radicarono nuove forme di gerarchia sociale, una maggiore mobilità, un uso più sistematico del metallo e della ruota, e nuove religioni. I tumuli yamnaici che si diffusero in gran parte del continente lasciarono una traccia visibile per generazioni: piccoli monumenti di terra che raccontavano una nuova ideologia, centrata sull’individuo, sulla morte eroica e sull’ascendenza maschile. E mentre le lingue neolitiche scomparivano, lasciando pochi o sparuti residui, le nuove lingue indoeuropee avrebbero continuato a evolversi e a ramificarsi per i millenni successivi, fino a dar vita ai dialetti italici, celtici, germanici, baltici, slavi e greci che sarebbero poi sbocciati nell’età del ferro.
L’impatto di queste migrazioni provenienti dalla steppa furono sicuramente, o almeno in parte, di natura violenta. Non possiamo sapere cosa pensarono le ultime comunità neolitiche di fronte a questo cambiamento o di come resistettero o si adattarono; quello che è certo è che da questo incontro – talvolta pacifico, talvolta traumatico – nacque una nuova matrice culturale ed etnica che avrebbe definito la storia europea per millenni. Un incontro che ancora oggi, nelle parole che usiamo, nei miti fondanti delle nostre culture e nei geni che portiamo dentro, continua a parlarci.