Away: la recensione

La serie fantascientifica di Netflix è poco credibile e piuttosto stereotipata, ma ha qualche buono spunto quando si parla di drammi interpersonali.

 

 

Ormai ci abbiamo fatto il callo: è davvero raro che Netflix proponga serie fantascientifiche di qualità, e Away non fa che confermare la regola. Miniserie in 10 puntate (per una volta ci viene risparmiato lo stillicidio del brodo allungato in tante stagioni), Away ci catapulta nel contesto di una missione spaziale che vede un equipaggio di cinque astronauti venire lanciato nello spazio in direzione Marte, con lo scopo di atterrare e far crescere delle piante che possano in un ipotetico futuro terraformare il pianeta rosso.

Le premesse sono oggettivamente molto interessanti, e le aspettative crescono sia per la presenza di un attrice di peso come Hilary Swank, sia per una fotografia che fin da subito chiarisce che Away non è un prodotto amatoriale dal basso budget. Infatti Away sembra più un film che una miniserie: la qualità del girato è inattaccabile, per lo meno dal punto di vista della fedeltà delle immagini e per la credibilità delle scene a gravità zero o fuori dalla nave spaziale.

 

 

Ben presto però ci si rende conto che Away soffre di una sindrome comune a moltissime produzioni statunitensi: quella del voler affidare una sceneggiatura tecnica o comunque che richiede attendibilità a gente che sembra non aver mai avuto nulla a che fare con i temi trattati. Le incongruenze di Away sono infatti moltissime e saltano alla gola dello spettatore fin dai primi momenti.
Se si cerca qualche esempio, basti pensare a quanto sia ridicolo pensare che la NASA possa affidare il controllo missione al marito della comandante dell’astronave, o il fatto che i sistemi di bordo non solo non siano ridondati ma che abbiano sistemi di riserva che da progetto non sono capaci di sostenere lo stesso carico di lavoro del sistema principale (ricordiamolo, è una nave spaziale in viaggio verso Marte e deve permettere la sopravvivenza dell’equipaggio per cinque anni). E poi ancora: il tecnico di bordo viene scelto nonostante per la missione nonostante la sua evidente problematicità caratteriale e la sua forte miopia già diagnosticata prima della partenza (ma che miracolosamente nelle prime fasi del lancio sembra non esistere) mentre un altro è alla sua prima missione spaziale in assoluto. Gli astronauti sono solo cinque e non hanno competenze intercambiabili: un solo tecnico, un solo medico e così via; se qualcuno è indisponibile, nessuno può coprirle il ruolo. Insomma, la fiera dell’assurdità.

 

 

Questa lista di esempi (lista parziale, ricordiamolo) va di pari passo con eventi che la sceneggiatura butta in mezzo come a dover trovare un motivo per rendere il viaggio descritto in Away qualcosa di molto simile a quello dell’Apollo 13; e se da una parte il fatto di voler alzare i toni è comprensibile e anche auspicabile, trattandosi di una serie d’azione e di dramma, molto meno comprensibile è il fatto che più o meno tutti gli inconvenienti che si parano di fronte ai cinque astronauti siano o scontati o inverosimili.
Nonostante la buona fotografia, la ricostruzione degli interni dell’astronave e qualche spezzone girato nello spazio si facciano apprezzare, purtroppo le azioni e le scelte dei protagonisti, così come l’artificiosità dei problemi presenti a bordo che il più delle volte spariscono senza peraltro lasciare traccia di sé, sono tutti elementi che concorrono in ultima analisi a rendere Away una serie completamente priva di credibilità e quindi di attrattività.

Eppure c’è qualcosa che Away fa bene: e cioè raccontare la difficoltà delle relazioni tra genitori e figli, mettendo in scena drammi piuttosto credibili e per una volta non strappalacrime. La sottotrama principale di Away tende addirittura a farla da padrona, arrivando a far dubitare lo spettatore: stiamo vedendo una serie fantascientifica o  una para-sentimentale? Se ci trovassimo nella seconda ipotesi, Away sarebbe probabilmente una serie da non disdegnare. Purtroppo però il punto di partenza e di arrivo della serie, e il minutaggio riservato ai rapporti interpersonali non fanno che confermare il fatto che Away è una serie fantascientifica; e sotto questo punto di vista è fiacca, non credibile e talvolta addirittura dilettantesca.
La cosa ricorda Tales From The Loop, un’altra serie che commette l’errore di volersi spacciare per fantascientifica quando il suo punto di forza sono le storie personali dei diversi protagonisti, che però rispetto ad Away è decisamente una spanna avanti.

 

 

Il comparto attoriale è nel complesso discreto, pur senza impressionare. Hilary Swank, già vista nel terribile Boys Don’t Cry, in Insomnia, in Million Dollar Baby ed in Black Dhalia, è probabilmente una delle attrici maggiormente sopravvalutate di Hollywood. Dotata di una sola espressione, la Swank sembra sempre un pezzo di ghiaccio secco incapace di sciogliersi, un blocco di granito alla Ivan Drago (chi abbia visto Rocky IV sa di cosa parlo); quando prova a mettere in scena i sentimenti non è credibile o risulta addirittura ridicola. Funziona solo quando deve impersonare il ruolo del comandante duro e puro; sinceramente troppo poco. Josh Charles, che interpreta il marito, non va molto meglio. L’attore che abbiamo visto in L’Attimo Fuggente e in Cosa Fare A Denver Quando Sei Morto convince poco sia come elemento cardine del coordinamento da terra della missione sia come persona colpita da ictus cerebrale: proprio non ci siamo. Chiudiamo il quadretto familiare con Talitha Bateman (La Quinta Onda), che alterna momenti da giovane adulta ad altri da irritante attrice di secondo piano. Insomma, ancora un mezzo pugno nello stomaco.
Le note positive arrivano dagli altri interpreti; sebbene la loro presenza sia di secondo piano e a volte siano incasellati in stereotipi evitabili, ricoprono bene il rispettivo ruolo. Mark Ivanir (Schindler’s List, The Hunting Party, Il Responsabile Delle Risorse Umane), Vivian Wu (L’Ultimo Imperatore, Tra Cielo E Terra, I Racconti Del Cuscino), Ato Essandoh (Django Unchained) e Ray Panthaki (Colette, Boiling Point – Il Disastro È Servito) fanno il loro con mestiere, pur nei limiti di quanto loro imposto.

Complessivamente, Away non passa l’esame. Per quanto sia parzialmente apprezzabile la componente emozionale della serie, il fulcro non ha spessore. L’aspetto fantascientifico è maltrattato da scelte di sceneggiatura al limite della denuncia penale, e il cast non riesce a tirare in secca una barchetta che si inabissa lentamente. Nonostante questo, al contrario di altre produzioni Away non è una completa perdita di tempo. C’è qualcosa di buono da poter apprezzare; l’importante è non avvicinarcisi con la speranza che spazio e astronavi siano sinonimi di fantascienza.

 

Away, 2020
Voto: 5.5
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