La minaccia cinese è sempre più concreta; il conflitto sembra probabile ma non imminente. Quali saranno le conseguenze economiche a livello mondiale?
Quella tra Cina e Taiwan è una guerra fredda che dura dal 1949, quando Taipei si è autodichiarata indipendente con il silenzio “assenso” di Pechino. Da allora, la Repubblica Popolare Cinese ha tentato di riconquistare il controllo sull’isola attraverso pressioni politiche e militari. Più di recente, i rapporti si sono incrinati lo scorso agosto, quando lo speaker della Camera Usa, Nancy Pelosi, è atterrato in visita a Taipei seguendo una rotta più ampia, al fine di evitare il mar Cinese meridionale. Immediata è stata la risposta di Pechino, che ha accusato Washinghton di violare la propria sovranità, sottolineando che “la madrepatria deve essere unificata e lo sarà”.
Quali sono le probabilità di un ipotetico attacco cinese a Taiwan?
Dal punto di vista economico, Taiwan è la 21esima nazione al mondo nella produzione di semiconduttori, con la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), con sede a Taipei, come più grande produttore indipendente di semiconduttori a livello mondiale. Essi sono alla base di tutti i principali dispositivi elettronici e microelettronici di cui, anche inconsapevolmente, facciamo utilizzo ogni giorno e che compongono la stragrande maggioranza degli oggetti che ci circondano. Dai semiconduttori dipendono grandi colossi tecnologici (Apple, Microsoft…) e, più in generale, tutte le aziende tech che compongono i principali indici di mercato. La posta in palio è alta e gli interessi in gioco delineano un equilibrio sottile tra le principali forze economiche mondiali.
Nonostante le recenti tensioni politiche, nel 2021 le esportazioni di Taipei verso la Cina sono cresciute del 24.8%, toccando i massimi storici. Dal punto di vista macro, oltre il 42% delle merci esportate sono dirette verso la Repubblica Popolare Cinese. Inoltre, nell’isola transita il 40% del commercio mondiale, di cui un quarto diretto verso gli Stati Uniti. Un eventuale attacco cinese a Taiwan metterebbe in ginocchio gli USA, facendo salire i prezzi dei semiconduttori alle stelle e intaccando pesantemente sui principali attori economici mondiali. Di contro, si rivelerebbe per la Cina un autosabotaggio: le grandi tech americane progettano i propri prodotti, TSMC produce i materiali necessari ma è in Cina che avviene l’assemblaggio. Danneggiare Taipei inciderebbe pesantemente sull’attività economica e produttiva cinese. Questo porterebbe ad escludere un attacco diretto, almeno al momento, e ad ipotizzare una più probabile guerra fredda fatta di trade commerciali, sanzioni, blocchi navali, imposizioni. Verosimilmente si tratta di strumenti preparatori ad un attacco successivo.
Cosa comporterebbe un blocco navale cinese?
Le probabilità di un attacco diretto aumenterebbero nel caso in cui la Cina dovesse ottenere l’autosufficienza in termini produttivi per quanto riguarda i semiconduttori, da aggiungersi al già raggiunto monopolio delle cosiddette “terre rare” (REE: rare earth element), ossia 17 elementi chimici, distinti in leggeri e pesanti, impiegati nella produzione industriale e militare. Questi sono indispensabili nella produzione della gran parte dei prodotti tecnologici quali satelliti, smartphone, fibre ottiche, motori di veicoli elettrici ed altre innumerevoli applicazioni. Il timore di un eventuale blocco navale ha costretto gli USA a correre ai ripari, tentando di internalizzare la produzione dei semiconduttori al fine di tagliare il cordone ombelicale con Taipei, finanziando la costruzione di stabilimenti appositi all’interno del territorio nazionale. Inoltre, un blocco cinese prolungato potrebbe costringere il governo di Taipei alla ritirata, tenuto conto che l’isola non è autosufficiente dal punto di vista alimentare e che l’economia di Taiwan si basa principalmente sugli scambi commerciali. L’ipotesi di un colpo di stato appena descritta costituirebbe a tutti gli effetti uno schiaffo cinese alla diplomazia mondiale, rendendo inevitabile l’intervento, anche militare, degli Stati Uniti. La speranza è che sia proprio la diplomazia a far scongiurare l’ipotesi di una guerra o, quantomeno, a ritardarla il più possibile.