Dazi doganali: qual è il vero obiettivo di Donald Trump?

Il Presidente USA non cerca una guerra commerciale coi partner internazionali; allora perchè imporre i dazi e rischiare di scatenare una potenziale recessione globale?

 

 

The Donald è senza dubbio uno di quei personaggi che la storia consegnerà alle future memorie. Il suo modus operandi assolutamente lontano dal protocollo internazionale, la sua arroganza nelle dichiarazioni pubbliche e la sua prepotenza nell’imporre la sua visione nelle negoziazioni lo rendono uno dei politici meno tradizionali e meno gestibili del dopoguerra.

Trump ci ha stupito da tempo con il suo ribaltamento della realtà mescolato ad elementi di verità tangibile ma espressa con violenza ed imposizione: è successo in campagna elettorale, con attacchi di bassissimo livello nei confronti di Joe Biden e di Kamala Harris affiancati a disamine inappuntabili sull’agenda politica Democratica; ed è successo poche settimane fa con il voltafaccia nei confronti di Zelensky prima e dell’Unione Europea poi in merito a terre rare e difesa militare, andando a normalizzare la situazione con la Russia facendo al tempo stesso il gioco dell’economia e delle industrie belliche statunitensi.
La vicenda dei dazi sembra però di primo acchitto andare oltre quella linea di confine che consente se non di giustificare, per lo meno di capire le mosse di Trump; il rischio di ricadute nefaste è elevato. Allora perchè questa iniziativa? E perchè ora?

 

 

L’obiettivo di Trump non è quello di distruggere completamente la finanza che ci ha consegnato un mondo globalizzato, che favorisce unicamente determinati gruppi di potere, quanto soprattutto quello di riportare gli Stati Uniti al centro della politica e della finanza internazionale, tutelando gli interessi USA con metodi che sicuramente lasciano stupefatti ma che, nelle altre iniziative trumpiane, sono risultati finora vincenti.

Donald Trump ha calato l’asso su due temi ben precisi: il primo è quello reinternalizzazione delle filiere produttive, spostate negli scorsi decenni in Asia ed in America Latina, dove il lavoro costa meno perché minori sono i salari e le garanzie sindacali dei lavoratori. Imponendo forti dazi nei confronti di queste realtà, Trump mette sullo stesso livello il costo del lavoro USA con quello dei Paesi manufatturieri più arretrati, rendendo nuovamente conveniente la produzione interna. C’è da tener conto che questi Paesi sono quasi sempre dipendenti dall’importazione di beni ad alto valore tecnologico per poter sviluppare la loro economia, e che questi prodotti spesso vengono dagli USA, mettendo quindi il Paese a stelle e strisce in una posizione dominante nelle negoziazioni.

Il secondo punto è quello dell’esportazione dei prodotti statunitensi verso i Paesi più sviluppati, dove il mercato interno è ricco ma anche dove la concorrenza è alta: è il caso dell’Unione Europea, della Gran Bretagna e del Canada (verso il quale è in atto anche un’altra offensiva legata all’immigrazione clandestina ed al traffico di droga). Qui Trump vuole assicurarsi che i prodotti a marchio USA non siano sfavoriti sui mercati dei paesi occidentali, cercando di ottenere nel medio-lungo termine una parità al ribasso della tassazione complessiva (richiesta difficilmente ottenibile, visto che è impensabile andare a tassare in modo maggiore i prodotti interni rispetto a quelli americani).

C’è poi il caso Cina: il Paese asiatico, fortemente protezionista nell’import ed altamente aggressivo quando si tratta di esportazioni, è stato molto abile nello scorso decennio a far proprie le tecnologie straniere grazie a investimenti attirati dal potenziale di un enorme mercato appena aperto e poi clonate o forzosamente nazionalizzate in barba a qualsiasi norma di diritto commerciale internazionale. Da sempre Trump ha visto nel Dragone il nemico da cui difendersi sia economicamente che militarmente, e verso il quale concentrare quindi la propria attenzione.

Nei panni di uno statunitense questo piano potrebbe essere apprezzabile e nell’immediato sta ottenendo qualche effetto non trascurabile: sono numerosi i Paesi che hanno iniziato delle trattative con l’amministrazione USA per abbassare il peso fiscale dei beni in transito (anche alcuni Stati appartenenti all’Unione Europea starebbero trattando separatamente, in barba alla tanto declamata unità della bandiera UE).
Eppure questa strategia non tiene conto di numerosi aspetti che in pochi giorni possono stravolgere l’offensiva dell’amministrazione Trump.

Il primo è che con questi indiscriminati attacchi aggressivi, e specialmente verso i suoi alleati storici, gli USA si stanno rapidamente isolando a livello internazionale: l’opinione pubblica canadese e del vecchio continente si sta compattando su posizioni anti-trumpiane (al pari dei politici locali). Gli USA cominciano ad esser visti come un partner commerciale di difficile affidabilità ed un alleato militare dal quale volersi potenzialmente sganciare, causando un disinvestimento degli imprenditori stranieri ed un riposizionamento strategico internazionale.
In che modo il vecchio continente potrebbe supportare gli USA nell’isolare la Cina dovendo peraltro preoccuparsi del potenziale nemico a est demonizzato negli ultimi tre anni e che ora è un problema che ricade tutto sulle nostre spalle? Ed infatti l’UE sembra aver iniziato colloqui proprio con la Cina per gestire lo squilibrio dettato dai prodotti a basso costo del Dragone, ma anche con l’India per considerare un accordo di libero scambio, privo di dazi.

 

 

I Paesi meno sviluppati potrebbero in egual misura voler cercare altri sbocchi: proprio verso la Cina e la Russia magari, le quali da anni stanno prendendo il controllo del continente africano, ovvero il nuovo territorio da sfruttare dal punto di vista economico e minerario. La penetrazione cino-russa potrebbe poi rapidamente allargarsi al sud-est asiatico ed all’America Centrale e Del Sud, aree di lotta clandestina durante la guerra fredda e che oggi potrebbero volersi affrancare dagli Stati Uniti.

Internamente, i cali delle borse stanno minando il sistema pensionistico americano, che al contrario del welfare europeo si basa in modo consistente su fondi di investimento che stanno accusando il colpo della vendita di azioni. E di certo anche i grandi investitori locali non possono essere contenti della situazione, con un evitabilissima emorragia finanziaria che alleggerisce i loro portafogli.

Non è un caso se Trump sta rapidamente perdendo l’appoggio di quel mondo economico e politico che ne ha sostenuto l’elezione a Capitol Hill: che le frizioni con Musk (che auspica aree di libero scambio, quindi senza dazi) fossero all’ordine del giorno era cosa nota, ma vedere nomi come quello del miliardario finanziatore repubblicano Ken Langone attaccare pesantemente la strategia trumpiana, alla stregua di elementi di spicco della stessa amministrazione presidenziale (dal Ministro del Tesoro Scott Bessent ai senatori Ted Cruz e Rand Paul) lascia da pensare.
Eppure non l’intera alta finanza è scontenta: quella maggiormente speculativa vede nel crollo delle borse la possibilità di riacquistare fondi ed azioni a prezzo ribassato e rimettere in pancia titoli in crescita, ottenendo un plusvalore non indifferente.

 

 

È difficile prevedere quanto questa fase potrà durare e se il calo delle borse sia destinato a continuare. Lo scossone degli scorsi venerdì e lunedì potrebbe essere destinato a riprendere, anche se non è peregrina l’ipotesi di un periodo di semi-stasi (magari con una lieve tendenza alla perdita) durante le consultazioni tra gli USA e i partner commerciali internazionali che Trump vuole vedere inginocchiati ai suoi piedi per ottenere dazi meno impattanti. Per quanto riguarda recessione, inflazione e perdita dei posti di lavoro i tempi non sono brevissimi: serviranno diversi mesi, a condizioni invariate, per vedere i primi drammatici effetti di questi tre nefasti elementi.

Quello che appare certo è che Donald Trump vuole raggiungere il prima possibile e con ogni mezzo i suoi obiettivi principali; fino a che ha il controllo di Camera e Senato, è libero di muoversi come meglio preferisce. Le elezioni di mid-term previste nel 2026 potrebbero però cambiare lo scenario; ma il Presidente potrebbe essere costretto dai suoi supporter a riconsiderare l’affaire dazi molto prima. Sono molti gli elementi che portano a pensare che le ricadute geopolitiche di questa ennesima bomba lanciata da Donald Trump siano state ampiamente sottostimate.

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