Provateci voi a smarcarvi da un successo planetario come quello della serie di culto Stranger Things. Millie Bobby Brown lo ha fatto!
Disponibile sulla piattaforma di Netflix, il secondo capitolo della saga della sorella di Sherlock Holmes è ancora diretto da Harry Bradbeer e, di base, conferma tutto l’indovinato cast dell’esordio. Spicca per consueta follia e talento Helena Bonham Carter, madre dei ragazzacci investigatori e figura quasi spirituale per la giovane protagonista. Molto credibile anche Henry Cavill (Black Adam, The Witcher, Batman vs Superman: Dawn Of Justice) nei panni del padrone di casa di Baker Street. Forte, infine, la scelta dei comprimari, tra teste rossiccie e facce paonazze. La grande differenza, però, la fa la cara e vecchia Undi di Stranger Things che, invece di cristallizzarsi su quell’ormai iconico personaggio, cambia marcia e offre una prova attoriale clamorosa. È bella, spiritosa, sagace, espressiva e… fisica.
Perché in fondo questa è la chiave di lettura del successo di streaming di questo lungometraggio. Dietro alle consuete logiche investigative che ben conoscono gli appassionati delle storie di Sir Arthur Conan Doyle, ci sono tantissime scene di grande azione ai livelli dei blockbuster anni ottanta con Rambo e Commando sugli scudi. A onor del vero, questo mix lo aveva inventato Guy Ritchie (The Gentlemen) proprio nel suo Holmes ma diamo merito a questa produzione di proseguire la sua intuizione con l’aggiunta della crescita della tecnologia a disposizione. Tutto è più fluido e realistico. E così ti ritrovi con la testa splittata tra un emisfero che segue l’inanellarsi di indizi e collegamenti vari e l’altro che agogna esplosioni su esplosioni, sangue a fiotti e nasi rotti. Ne guadagna il ritmo della visione (se ti annoi, sei un cocainomane) e ne guadagna la stessa Millie che dimostra quanto sia in grado di ricoprire anche questo ruolo moderno.
A proposito di modernità, Enola Holmes 2 diventa un filmone da non perdere se si analizza la trama della sceneggiatura sotto quest’ottica. Si tratta, infatti, di una storia di emancipazione femminile a due diversi livelli: quello della giovane donna che cerca in qualche modo di sfidare la fama di suo fratello in una società maschilista; e quella della bellissima e verissima storia delle tante lavoratrici sfruttate e uccise nelle fabbriche di Londra in quel periodo. Lo scivolone nel luogo comune era dietro l’angolo e invece si salta il problema a piè pari in una narrazione dove non ci sono forzature né rappresentazioni stereotipate, ma solo la voglia di ricordare quanto recente (sempre che sia avvenuto davvero) sia l’affrancamento delle donne da tutto questo.
Millie non fa scoppiare teste e non sbatte al muro demogorgoni eppure riesce a prendersi la totale attenzione dello spettatore lo stesso, dimostrando una crescita completa rispetto al titolo precedente. Ora non è più la ragazzina che si affaccia timidamente fuori dalla sua comfort zone di successo ma è diventata una fottutissima giovane attrice pronta a prendersi il suo posto nell’immaginario collettivo di quest’arte. Ha una di quelle rare facce che funzionano nella commedia (le sue espressioni improbabili durante il balletto lo dimostrano) ma anche nell’action movie. Ha una di quelle rare facce belle ma non da gommata escort di lusso.
E allora non resta che goderci la definitiva nascita di questa stellina e un lungometraggio in stile vittoriano dove aleggia un po’ del primo (migliore) Tim Burton (Mercoledì, Il Mistero Di Sleepy Hollow, Alice In Wonderland, Edward Mani Di Forbice, solo per citarne alcuni) e un po’ di Carnival Row. Bombetta in testa e una tazza di tè tra le mani… il delitto è servito.