Gli zombi col telefonino: il male che fanno i social

Tu non leggerai questo articolo: ci sono troppe parole. E come in una gara ad ostacoli per perdenti, abbandonerai la lettura prima di arrivare alla fine.

 

 

Se stai leggendo queste righe, complimenti: hai aperto l’articolo. I più si fermano a dare uno sguardo al titolo ed all’immagine iniziale per poi passare oltre o, nella migliore delle ipotesi (migliore?) commentano sui social senza leggerne il contenuto.

Accade a tutte le testate di stampo giornalistico: gli articoli ora devono essere stringati, accattivanti, pieni di immagini. Se poi la parte scritta è superficiale o scritta male poco importa, anzi meglio: occorre catturare il popolo dei social, persone a cui non è stata insegnata la capacità di rimanere concentrati a leggere per più di 20-30 secondi.

Sei ancora qui? Congratulazioni. Hai superato il secondo ostacolo! Ma ora viene la parte più difficile. Fai mente locale a ciò che vedi intorno a te quando esci di casa: persone che camminano a testa bassa, con lo sguardo perso nello schermo. Famiglie al ristorante che non dicono una parola, tutti intenti a guardare i social, scrivere su WhatsApp o giocare a qualche giochino. Gli zombi col telefonino ci circondano.

 

 

A tutti noi sarà capitato di isolarci, usando il telefono, per guardare Facebook, o Instagram, o qualche sito che ci interessa, magari seduti in qualche sala d’attesa, o per leggere i messaggi su WhatsApp mentre si è fermi in auto, incolonnati nel traffico.
Non c’è nulla di male nel controllare i social network che ci interessano. Eppure in tanti hanno varcato quella soglia che li porta a diventare schiavi di qualcosa di completamente etereo senza nemmeno rendersene conto.

Abbiamo tutti ben chiari gli incidenti stradali causati da gente “distratta”, con gli occhi puntati sul telefonino invece che sulla strada; o i ragazzi che si lasciano trasportare da sfide pericolose e stupide per mettersi in mostra; o ancora, le pesanti umiliazioni pubbliche attuate contro soggetti più deboli (da cui l’orribile termine “bullizzare”) che hanno portato anche a qualche suicidio.

A voler essere onesti, poi, in tanti passano ore ed ore del proprio tempo a vedere le pagine degli altri sui social; un qualcosa che sfocia nell’ossessivo compulsivo e che, a più ampio spettro, con la diffusione di internet come mezzo a disposizione dei più, ha spesso stravolto le regole della convivenza sociale.

Ma c’è un punto basilare che spesso sfugge, e cioè che i social sono uno strumento studiato appositamente per imprigionare l’attenzione delle persone, sollecitandone gli aspetti emotivi (esattamente come fanno le slot machines o i loot box dei videogiochi) per mantenerle all’interno del circuito e, come fine ultimo, fornire profitto ai gestori – sotto forma di pubblicità all’utente e vendita della sua profilazione, oltre che come fornitura diretta di servizi a pagamento.

 

 

Facebook, Instagram, Youtube, Tik Tok e compagnia cantante sono tutte facce della stessa medaglia: quella della perdita della coscienza di sé e della propria autonomia, dell’aver spostato il piano di esistenza su di un ambito etereo, “volatile” come spesso sento in giro, e quindi effimero e privo di spessore.
È sintomatico il fatto che anche questo articolo debba essere reso disponibile proprio sui social per permetterne la visibilità; ormai i social sono il principale veicolo di diffusione di informazioni e opinioni (oggi semplicemente chiamate “contenuti”, alla pari di ragazzine che sculettano e gente che si mostra mentre gioca alle console, incapace di parlare in italiano), e questo è un pericolo anche per la pluralità del pensiero.
Oltre alla loro pervasività e alla loro capacità di veicolare determinati concetti e valori, infatti, i social hanno la possibilità di bloccare (censurare) ogni pensiero differente da quello dei loro gestori. Un paio di esempi sono la chiusura dell’account Twitter di Donald Trump durante la sua presidenza e quella operata sui profili Facebook di partiti politici italiani rappresentati nell’arco costituzionale. Qualcosa di gravissimo ma che non ha portato conseguenze ai gestori.

Di fondo però rimane un fatto: il condizionamento operato dai social è qualcosa a cui si sceglie di sottostare. In molti hanno chiuso o abbandonato queste piattaforme, mentre altri le continuano ad usare sporadicamente e per lo più per tenersi in contatto come forma alternativa alle email. Molti altri, specialmente fra i più giovani, hanno però scelto di farne parte centrale della loro vita, come fosse una nuova religione con un nuovo feticcio da idolatrare. Fra selfie, video e frasi ad effetto che hanno come unico scopo quello di ottenere più Like possibile, il panorama è desolante e preoccupante.

 

 

La serie TV Black Mirror, uscita fra il 2012 e il 2019, è stata profetica: ha colto in pieno la potenza dei social e la loro capacità di penetrazione nella vita delle persone. Personalmente non concordo con alcune delle valutazioni espresse dal nostro MarcoF sulle singole puntate; ho inteso Black Mirror come critica sociale più che come serie d’azione e non posso che consigliare la visione delle prime due stagioni. La loro rilettura, oggi, fa scopa con un processo in corso che sembra difficilmente arrestabile.

Uscire di casa e notare persone attraversare la strada senza guardare se stia arrivando una macchina, o vedere una moltitudine di persone recarsi in spiaggia o in qualche punto panoramico per farsi rapidamente una foto in posa per poi passare i cinque minuti seguenti a postarla sui loro profili, ignorando le meraviglie intorno a loro, è sconvolgente. Per non parlare del fatto che oggi il potere della voce dei social è più forte di quella di fatti, analisi e ragionamenti concreti.

No, il futuro non si prospetta roseo e felice; ma tu sei arrivato fino a qui. Hai vinto la gara, hai letto tutto fino in fondo e, a prescindere se tu sia o meno d’accordo con me, fai parte di quella ristretta cerchia di persone che ancora si interessano, si fermano a ragionare, si preoccupano di ciò che accade loro attorno.

Non credere sia poco.

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