L’intervento sovietico in Afghanistan, a lungo richiesto dai vertici comunisti del paese, si rivela la miccia che fa scoppiare un incendio lungo dieci anni.
Quando alle ore 19:15 del 27 dicembre 1979, le forze sovietiche già presenti nei pressi della capitale Kabul danno inizio all’assalto del Palazzo Tajbeg, rifugio del leader comunista afghano Amin, quest’ultimo è ancora sicuro che i sovietici stiano intervenendo per aiutare lui e i comunisti afghani nella lotta contro i nemici interni. Durante la seconda metà del 1979 aveva chiesto aiuto a Mosca e solamente due giorni prima era stato informato che la 40° Armata sovietica aveva finalmente iniziato l’avanzata nel territorio della sua nazione. Tutto nella sua testa gli faceva credere che queste azioni, persino l’attacco al Tajbeg, non fossero che i tentativi di Mosca di salvare lui e il suo paese, sprofondato in una spirale di violenza. Amin trova la morte in quelle concitate ore dell’assalto al Tajbeg; nella stessa sera i sovietici si impadroniscono dei principali mezzi di comunicazione a Kabul e diffondono le notizie non solo relative ai fatti del Tajbeg e alla punizione di Amin, ma proclamano anche il passaggio del potere nelle mani di Babrak Karmal, leader della fazione più moderata dei comunisti.
Nel paese viene inviata la 40° Armata sovietica, forte di circa ottantamila uomini e migliaia di mezzi blindati. Ne fanno parte la 5° e la 108° divisione guardie fucilieri, che vengono dispiegate fin dal primo giorno, ma arriveranno presto anche la 68° e la 201° guardie fucilieri e le brigate aviotrasportate (le famose VDV sovietiche e poi russe) come la 56° brigata d’assalto. Il comando viene affidato al Maresciallo Sergey Sokolov.
L’entrata in scena della 40° Armata, una vera forza d’invasione, allarma non solamente il blocco occidentale ma anche le nazioni a maggioranza musulmana, molto aspre nel criticare l’intervento sovietico, e addirittura la Cina guidata da Deng Xiaoping, che vede la crescente instabilità regionale come un pericolo diretto. Anche tra le nazioni del Patto di Varsavia la notizia viene accolta con sgomento.
L’avanzata dei tank sovietici provenienti da nord è rapida e si sviluppa esclusivamente sulle poche e malmesse strade che collegano i grandi centri abitati del paese, fino a ricongiungersi con le forze aviotrasportate già presenti dentro e nei pressi di Kabul. La processione di carri armati e della fanteria sovietici, di quegli uomini così diversi, stranieri, ha un effetto profondo sulla popolazione civile, già vessata da un biennio terribile. Oltre a un anticomunismo sempre più concreto nelle dimostrazioni pubbliche e alla religiosità intrinseca, specie nelle zone rurali, serpeggia adesso anche il nazionalismo afghano, che ben si amalgama al resto e fa sì che decine di migliaia di persone prendano le armi contro l’invasore sovietico. Le fazioni, come presto scoprono anche i sovietici, sono davvero tante e ciascuna con obiettivi diversi, politici o sociali che siano. Il sentimento generale che accoglie i sovietici non è di gioia o di liberazione come Mosca si aspettava, ma di crescente insofferenza per quella che viene a tutti gli effetti vissuta come un’occupazione nemica.
Dall’insofferenza alle azioni concrete la linea di demarcazione è davvero sottile, e viene presto varcata. Per le strade della capitale, già dai primi mesi del 1980, si assiste all’uccisione di innumerevoli pattuglie sovietiche, assaltate di sorpresa nelle strade e nei vicoli da parte di chi la città e i percorsi urbani li conosce molto bene. È qualcosa che ribolle ed esplode infine a Kabul in una protesta di massa, nel mese di febbraio, che viene sedata con almeno cinquecento morti e migliaia di feriti; è questo un chiaro segnale per le forze di occupazione, che si rendono sempre più conto che nemmeno Babrak Karmal e la sua visione politica sì comunista ma più moderata di quella di Armin, può stabilizzare la nazione.
Nella primavera del 1980, nei quartieri centrali di Kabul si radunano gli studenti che protestano contro il disordine politico causato dai comunisti al potere. L’intervento dei soldati fedeli al Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA) reprime duramente anche questa manifestazione, causando numerosi morti fra i protestanti.
Sorpresa ancora più amara per le forze di Mosca è quella di rendersi conto di non poter far affidamento sulle forze dell’esercito nazionale afghano, dal pessimo morale e dalla lealtà spesso altalenante, con intere unità passate dalla parte dei ribelli. Privi della reale volontà di opporre una vera resistenza al sempre più crescente numero di combattenti ribelli e di certo non simpatizzanti per la causa comunista, questi soldati si dimostrano quasi un intralcio per i sovietici e una ricca fonte di informazioni e di armamento invece per i guerriglieri. Non è raro trovare piccoli gruppi ribelli guidati da qualche ufficiale disertore, armati con le dotazioni delle caserme saccheggiate; un elemento che ricorda molto quanto avvenuto poi anche nel 2021, con la fuga degli statunitensi e la vaporizzazione dell’esercito afghano di fronte ai Talebani.
Si delinea uno scontro impari: i sovietici con i loro mezzi corazzati dominano le strade, i collegamenti e i centri principali, mentre il resto del paese, la quasi totalità, appartiene ai ribelli. La strategia degli invasori non può che essere basata sul pugno duro, sulle offensive mirate contro villaggi e aree rurali sospettate di nascondere o rifornire le miriadi di formazioni guerrigliere nemiche. Le case dei civili vengono bruciate, così come i raccolti o le altre fonti di sostentamento, con l’idea di eliminare qualsiasi risorsa che possa alimentare una lunga resistenza, spaventare e indebolire lo spirito di lotta. A dirla tutta, diventa difficile capire persino contro chi queste forze di occupazione devono combattere perché se da una parte il blocco comunista appare relativamente chiaro e strutturato, dall’altra parte c’è un universo di forze e intenti. I mujaheddin, i guerriglieri afghani, combattono e provengono da substrati culturali, sociali e politici eterogenei. Tantissime realtà coesistono e uniscono le forze in una causa comune; è nota a tutti la partecipazione di gruppi salafiti estremisti di provenienza araba (un certo Bin Laden e i suoi combattenti) ma partecipano alle lotte anche minoranze etniche o politiche, alcune delle quali sorprendono molto per le posizioni politiche. Un esempio è fornito dal SAMA, gruppo dalla intransigente visione maoista combattente contro sovietici e comunisti afghani.
I sovietici dunque, rintanati nei centri urbani e di fatto in controllo di un 20-30% del paese, si limitano in questa fase iniziale a sferrare attacchi e offensive solamente parziale verso le impervie regioni rurali e montuose dove la resistenza si organizza sempre meglio. Nascono centri di addestramento per i guerriglieri afghani e innumerevoli carichi di armi di varia e dubbia provenienza confluiscono nelle vallate afghane.
All’estero invece, le nazioni Occidentali con gli Stati Uniti in testa e una coalizione di stati a maggioranza musulmana si attivano per fornire più supporto possibile alla costellazione di fazioni e gruppi combattenti. Ci vogliono tuttavia alcuni anni per delineare al meglio sia le linee di intervento degli attori esterni al conflitto, sia il flusso concreto di aiuti. Lo stesso lungo percorso si ha per la creazione di alcuni fronti comuni interni, in ottica di una più efficace resistenza e risposta all’invasore.
La partita è aperta, e ne vedremo i dettagli nel prossimo articolo.