Dopo la sua candidatura, la democratica ha rapidamente superato Trump nei consensi; oggi però il magnate repubblicano sembra essere nuovamente avanti. Quali sono le ragioni?
Quando Joe Biden è stato silurato dai capi del Partito Democratico, in molti sono saltati sulla sedia: in piena campagna elettorale, ma motivata dalla crisi di consensi verso il sempre meno affidabile Presidente uscente.
Se la mossa dei Clinton e degli Obama di sponsorizzare Kamala Harris come paladina del mondo dem statunitense è stata tardiva, non si può certo dire che non abbia dato un forte scossone alla bilancia elettorale: in poche settimane la Harris ha non solo raggiunto, ma chiaramente superato Trump nei sondaggi. Questo effetto sorpresa però si è gradualmente affievolito, ed a una settimana dal voto il magnate americano sembra essere nuovamente, e defintivamente, avanti. Cosa è successo?
Chiariamolo subito: i due attentati a Donald Trump non sono stati necessariamente un elemento in grado di fargli guadagnar voti. L’elettorato repubblicano è storicamente determinato, e la politica interna ed estera dell’ex Presidente è nota e chiara: difesa dei confini dagli immigrati clandestini, la ripresa della produttività statunitense tramite manovre economiche ben delineate, la neutralizzazione dei principali conflitti e contrasti nel mondo. Altro non è che la prosecuzione del programma che lo portò ad essere eletto Presidente nel 2017 e che durante il suo mandato ha oggettivamente conseguito, con un tasso di disoccupazione favorevolmente basso (il record storico, per gli USA), la riappacificazione con la Russia (ricordiamo le forti tensioni sotto la Presidenza Obama), l’individuazione nella Cina del prossimo pericolo economico, il rafforzamento del contenimento dei clandestini attraverso norme e la costruzione del muro lungo i confini col Messico (inizialmente osteggiato dai democratici, e poi appoggiato dagli stessi). Trump ha già fatto il pieno di voti nei mesi precedenti, e gli ultimi eventi non stanno ingrandendo il suo bacino elettorale.
Completamente diversa la situazione in casa democratica. Joe Biden aveva già dimostrato la sua evidente inabilità da un paio d’anni, e solo la cieca ricerca di potere dei Clinton e degli Obama continuava a sostenerlo (è lecito pensare che Biden non fosse altro che la loro marionetta). Il venir meno della base dem, sempre più estremista ed ideologica, e per questo frastagliata ed incapace di dialogare (esattamente come in Europa), ha tolto il terreno sotto il piano di riconquista della Casa Bianca ai vertici democratici, che sono corsi ai ripari con una soluzione di emergenza: individuare in quella Kamala Harris messa in ombra negli anni della presidenza Biden il nuovo cavallo da battaglia.
La Harris non rappresenta però necessariamente il nuovo elettorato democratico: non ha sposato le posizioni palestinesi, è tutto sommato un falco nel mondo giudiziario ed ha in passato preso le distanze dai moti più violenti ed intransigenti della sinistra statunitensi; in più nei fatti non ha alcuna visione politica ed economica, come dimostrato nei dibattiti televisivi, nelle interviste e nelle dichiarazioni pubbliche. Insomma la Harris basa il suo consenso esclusivamente sul fatto di essere nera, democratica, pro LGBT.
Ciò che è successo durante la parte finale della campagna elettorale statunitense è paradossale: il Trump che inizialmente dileggiava ed accusava i suoi avversari, mostrando di sé il lato più becero ed insopportabile, è passato ad essere il politico più preparato, con una Harris che ha immediatamente lasciato il terreno del discorso politico, passando ad attaccare Trump sul piano personale, contornata e supportata da quel mondo dello spettacolo capace di spostare il pensiero di quella parte di opinione pubblica che, come tasso culturale, non ha nulla in più dei tanto vituperati redneck del centro-sud USA, dipinti dai cantanti ed attori “paladini del bene” come bifolchi privi di logica ed intelligenza.
Insomma la Harris ha visto bruciare tutto il suo vantaggio, e oggi Trump sembra essere nuovamente avanti. È interessante vedere come il Washington Post, uno dei principali giornali statunitensi, abbia preso le distanze da entrambe i candidati per la prima volta dal 1976. Il giornale, schierato solitamente a favore delle posizioni democratiche, sta lanciando un chiaro messaggio: i giochi sono (probabilmente) già fatti.
Trump ha dalla sua non solo la capacità di polarizzare attorno a sé quell’elettorato stanco delle estremizzazioni a favore di minoranze etniche e sociali, che anela un ritorno alla stabilità interna ed internazionale, e che rifiuta l’atteggiamento irriverente e supponente dei democratici; in più ha l’appoggio del mondo finanziario che non fa riferimento all’establishment democratico, autore dei maggiori disastri economici degli ultimi 25 anni, di enormi passi falsi in campo internazionale e che vede di cattivo occhio un indipendente ignorare i propri diktat.
La Harris è il rappresentante di questi poteri economici, e non è stata in grado di andare oltre la ripetizione a pappagallo delle tematiche ideologiche proposte dal mondo progressista e liberista. Ha recuperato su Trump, ma non ha sfondato non riuscendo a convincere quell’elettorato moderato che non riesce ad avvicinarsi al repubblicano per il suoi modi violenti ma che non si vuole accomunare alla dittatura dei mercati e agli estremismi ideologici e radicali della base dem.
La sfida fra Trump e Harris riserverà colpi di scena fino all’ultimo momento, ma se si dovesse scommettere un euro, la scelta più saggia sarebbe quella di puntarlo sul settantottenne magnate di New York.