L’estremismo ecologico dell’Unione Europea si abbatte anche sulle case

Da idee complessivamente condivisibili, spesso l’UE arriva a direttive difficilmente applicabili o addirittura dannose per i propri cittadini. Il tutto, scordandosi delle realtà oltreconfine.

 

 

Una delle grandi iniziative in corso promosse dall’Unione Europea è la battaglia per abbattere drasticamente le emissioni nocive nell’atmosfera; un proposito assolutamente necessario per cercare di ridurre i danni cagionati al nostro pianeta.
L’UE ha progressivamente imposto all’interno dei propri confini misure sempre più stringenti, che se da una parte hanno permesso alla confederazione di Stati di ridurre fino all’8% su scala globale la quantità di gas che causano l’effetto serra immessi nell’atmosfera, dall’altra hanno avuto pesanti ripercussioni sull’economia interna.

Il fatto che andare verso un modello di sviluppo ecologico avrebbe avuto conseguenze ed impatti sull’economia e sul modo di vivere di ognuno di noi era scontato, ma quello che manca all’Unione Europea è la capacità di vedere le cose in modo bilanciato e soprattutto rendersi conto che il nostro continente non è l’unica entità ad inquinare.
Il fulcro del problema sta proprio in quell’8% di cui sopra: le azioni finora intraprese dall’Unione Europea sono sacrosante, ma adesso è tempo di guardarsi attorno.

 

 

I paesi che inquinano di più (Cina, Stati Uniti, Russia, India) sono infatti refrattari a modificare le loro strategie economiche in funzione delle urgenti e non più prorogabili necessità ambientali; e mentre noi europei ci impoveriamo individualmente ed indeboliamo la nostra competitività commerciale, nel resto del mondo il dovuto impegno nel contrasto all’inquinamento latita.

Le quattro nazioni sopra citate fanno larghissimo uso di carbone, la cui combustione è uno dei motivi principali della produzione dei gas nocivi al pianeta; e non si vedono misure tangibili per ridurne il consumo. La Cina è leader nella produzione di sistemi fotovoltaici ed eolici, ma per produrli e per spingere l’economia interna usa quasi esclusivamente carbone e petrolio; Stati Uniti e Russia utilizzano i combustibili fossili come fonte principale di approvvigionamento energetico, affiancandoli al discusso uso del nucleare; l’India infine ha rifiutato qualsiasi paletto sull’utilizzo degli idrocarburi e del carbone pur di permettere alla sua economia di crescere. Senza un reale cambio di rotta da parte dei grandi inquinatori, ogni sforzo fatto dai cittadini e dalle industrie europee non solo sarà vano, ma spingerà il Vecchio Continente sempre più verso i margini dell’economia e della ricchezza internazionale.

 

 

Le ultime due principali iniziative dell’Unione Europea sono quelle dello stop alle vendite ai motori termici nel 2035, direttiva della quale si discute ormai da tempo, e – novità di questi giorni – l’obbligo di portare a norme fortemente meno energivore tutti gli edifici entro il 2030. In entrambi i casi si tratta di iniziative ammirevoli ma che non hanno alcun contatto con la realtà.
Nel primo caso si sta fondamentalmente chiedendo ad uno dei principali settori dell’economia europea, quello dell’automobile e del suo ampio indotto, di riconvertire la progettazione e tutti i sistemi produttivi (inclusi i processi interni e la logistica) in appena quindici anni; se la cosa è forse fattibile, dall’altra parte si sta creando uno squilibrio con i produttori extra EU, i quali possono continuare a fatturare su vetture tradizionali, e quindi mettendo in difficoltà economica le imprese europee.
La forte spinta verso l’elettrico, specificamente menzionato all’interno della direttiva, taglia peraltro le gambe ad altre possibili forme di motorizzazioni (la famosa auto ad idrogeno sarebbe pronta da decenni, ma osteggiata dagli stessi produttori per i ridotti margini di profitto sulla produzione e soprattutto sul carburante), e favorisce fortemente la Cina alla quale è stato nei fatti regalato l’intero comparto del “green”, grazie alle folli delocalizzazioni effettuate dalle aziende occidentali.

 

 

Ancora meno comprensibile nei tempi è il discorso sulla ristrutturazione obbligatoria degli edifici entro il 2030; in sette anni ogni proprietario di casa dovrebbe metter mano al proprio portafoglio e ribaltare situazioni finora non affrontate probabilmente per mancanza di liquidità più che per voglia. Il problema è che si vuole risolvere il problema come sempre senza considerare le enormi differenze che contraddistinguono il microcosmo europeo: a livello economico, logistico, culturale e strutturale i 27 Paesi dell’UE manifestano differenze che non possono essere gestite con una norma che appiattisce ogni diversità. Se per esempio la Germania, Paese per il quale sembrano essere tagliate quasi tutte le direttive, vede un patrimonio immobiliare principalemente fatto di case recenti (degli anni ’50 o successivi) e di proprietà di grandi gruppi immobiliari, molto diversa è la situazione nel sud del’Europa, dove sarebbero i singoli cittadini a doversi pagare le ristrutturazioni. Il tutto senza considerare l’impennata dei prezzi del mondo dell’edilizia, che tra superbonus e guerra in Ucraina ha dimostrato di essere ingestibile anche solo coinvolgendo una frazione degli immobili Italiani; figurarsi dove arriverebbero i costi se l’impulso al comparto edile arrivasse contemporaneamente su tutto il territorio dell’Unione Europea.

 

 

Come spesso accade, le decisioni prese nel Parlamento Europeo sembrano calare dall’alto; la lontananza dalla vita vera dei politici che ci governano sembra essere sempre maggiore, come l’insoddisfazione dei cittadini che si vedono sudditi, e non partecipi, di un’istituzione che non hanno necessariamente voluto o scelto.

Per condividere questo articolo: