Il payback sanitario sposta il debito pubblico dalle regioni italiane alle imprese private; ma a che prezzo?
Il payback sanitario è un meccanismo finanziario introdotto in Italia nel 2015 con l’intento di contenere e controllare la spesa sanitaria regionale relativa all’acquisto di dispositivi medici e di farmaci a livello territoriale. Nato con il governo Renzi per il settore farmaceutico, il meccanismo è stato poi esteso a quello dei dispositivi medici dal Ministro Lorenzin e finalmente attivato, nel 2022, dal Ministro Speranza (governo Conte bis).
In sostanza, lo Stato prevede che le aziende sanitarie private (farmaceutiche e biomediche), contribuiscano economicamente a sanare una quota parte del superamento del tetto di spesa sanitaria regionale relativo al periodo finanziario 2015-2018. Tutto questo in nome sia del contenimento generale dei costi, sia di un nuovo impulso alla competitività di mercato (in termini di efficientamento, riduzione degli sprechi, gestione dei prezzi e dei volumi di fornitura da parte delle aziende di settore).
Giuridicamente parlando, questo meccanismo risponde al principio costituzionale secondo cui anche l’iniziativa privata deve essere motivata da una utilità sociale. Nella pratica, si tratta di una ripartizione del debito tra imprese e regioni derivante però da una cattiva gestione di bilancio da parte di queste ultime. Quando il budget Regionale viene sforato, i fornitori privati dei servizi sono insomma chiamati a compartecipare all’eccesso di spesa, arrivando in alcuni casi addirittura a doversi riprendere in casa materiali e macchinari difficilmente riallocabili sul mercato, senza vedersi considerare le spese vive sostenute per acquisto o produzione.
L’allocazione delle risorse finanziarie assegnate a ciascuna Regione è rimessa unicamente all’ente territoriale destinatario. Perché allora le imprese private dovrebbero collaborare alla copertura del buco di bilancio pubblico? In questi termini, sembrerebbe un meccanismo di deresponsabilizzazione degli enti regionali rispetto a cattive scelte di programmazione economica, travestito da contenimento della spesa pubblica (a carico dei cittadini) e dalla volontà di garantire equità nell’accesso alle cure pubbliche. Meccanismo che, oltre a creare tensioni tra gli attori coinvolti, rischia di minare l’autonomia organizzativa e imprenditoriale delle aziende private di settore.
Non solo: trasferire il debito dal bilancio dello Stato a quello dei privati implica, per questi ultimi, vedere compromessa, oltre alla propria capacità di investimento in innovazione, la stessa sopravvivenza. Si parla infatti di più di 5 miliardi di debito ripartito in maniera proporzionale tra i privati; contributi diversi che hanno impatti diversi, considerata la situazione economico-patrimoniale specifica di ciascuna azienda.
Il tutto a carico non solo delle imprese ma dell’intera filiera, in termini di occupazione e di PIL. Qualora diventasse effettiva la richiesta, le società fornitrici potrebbero decidere di ritirarsi dalle gare pubbliche per l’assegnazione di appalti e la fornitura di servizi medici; ciò si tradurrebbe, necessariamente, in un taglio dei posti di lavoro ed una carenza di dispositivi medici e strumenti chirurgici nelle strutture sanitarie regionali (con tempi di attesa per le diagnosi più lunghe, peggioramento della qualità delle cure e dei servizi sanitari di base). Verrebbe quindi meno uno dei principi trainanti del payback stesso. La mancanza di materiali costringerebbe poi lo Stato ad indire nuove gare di appalto per la fornitura di apparecchiature mediche, a causa di un probabile fallimento di molte aziende italiane ed il subentro di multinazionali straniere.
Per tutti questi motivi, il payback sanitario è spesso oggetto di numerose critiche e di dibattito all’interno dei governi recentemente susseguitisi (da Draghi a Meloni). L’impatto economico atteso e potenzialmente disastroso rende infatti essenziale una riflessione di più ampio respiro rispetto a possibili soluzioni alternative. Sicuramente necessaria è la revisione strutturale dei tetti di spesa, che tenga conto dell’evoluzione dei bisogni sanitari regionali e dell’inflazione, riducendo il rischio di sforamenti sistematici. Questo implica sia una semplificazione, a livello burocratico, volta a ridurre la complessità amministrativa legata alla gestione degli appalti e ai rapporti tra aziende e Regioni; sia la previsione di sistemi di monitoraggio preventivi di spesa in tempo reale, che consentano correzioni tempestive evitando di ricorrere a rimborsi ex-post.
Ciascuna di queste possibili soluzioni richiede necessariamente una stretta collaborazione tra governo, Regioni, e aziende per superare il modello attuale, con l’obiettivo di bilanciare sostenibilità economica e competitività industriale.