Trump e le Big Tech: amore e odio

Dopo anni di tensione tra Trump e la Silicon Valley, arriva un cambio di rotta dei leader tecnologici.

 

 

Il rapporto tra le Big Tech della Silicon Valley e l’attuale presidente americano Donald Trump è una storia tormentata quanta complessa, a tal punto da assumere, negli anni, sembianze diverse. È infatti innegabile che, nel corso della prima legislatura Trump, le Big Tech abbiano assunto un ruolo cruciale e ambivalente caratterizzato da collaborazioni economiche e opposizioni ideologiche.
Le divergenze su temi quali immigrazione, cambiamenti climatici, libertà di espressione e antitrust hanno inevitabilmente segnato il legame e riacceso il dibattito sull’oligarchia tecnologica e sulla supremazia delle piattaforme digitali in America. Ma facciamo un passo indietro.

Progressiste per definizione, la maggior parte di queste aziende sono tradizionalmente favorevoli all’immigrazione come strumento di innovazione e alla sostenibilità come lotta ai cambiamenti climatici; tutti temi disconosciuti dall’attuale governo, che nel tempo ha assunto posizioni diametralmente opposte tanto da spingere lo stesso Trump ad accusare i CEO del’industria informatica (specialmente quella legata ai social media) di pregiudizio politico, di censura operata nei confronti dei conservatori, di disinformazione e parzialità a favore dei Democratici in occasione delle elezioni presidenziali del 2020. Si tratta di accuse seguite in questi giorni da indagini antitrust avviate dall’amministrazione Trump contro Google, Facebook, Amazon e Apple, accusate di pratiche anticoncorrenziali: un cambio di rotta significativo per i repubblicani, storici sostenitori del libero mercato, con poche (o senza) regole e controlli.

Dal canto loro, dopo l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021, Twitter, Facebook e YouTube (di proprietà di Google) hanno sospeso gli account di Trump dalle proprie piattaforme con un ban permanente, accusandolo, in alcuni casi, di essere un rischio per la sicurezza pubblica.
Il rapporto fra Donald Trump e Amazon, poi, è stato tra i più ostici. Il presidente ha spesso criticato il Washington Post (di proprietà di Jeff Bezos, il deus ex machina di Amazon), incolpandolo di diffondere notizie false. Di contro, Amazon accusa Trump di aver ostacolato trattative commerciali miliardarie tra la società ed il Pentagono per l’acquisto di servizi di cloud computing, poi affidati a Microsoft.

A onor del vero, ci sono stati anche momenti di collaborazione tra i repubblicani e la Silicon Valley. Nel 2017, la riforma fiscale di Trump che tagliava l’aliquota imposta alle aziende ha incrementato i profitti societari; nello stesso anno, l’American Technology Council voluto da Trump ha rappresentato un momento di incontro e di scambio con alcuni CEO tra cui quelli di Apple (Tim Cook), Microsoft (Satya Nadella), Amazon (Jeff Bezos) e Tesla (Elon Musk) in tema di innovazione tecnologica e transizione digitale a livello governativo.

 

 

Il cambio di rotta decretato dall’esito delle scorse elezioni presidenziali è già in essere e sta impattando anche gli ambiti dei grandi leader tecnologici.

È quello che è successo, per esempio, con le politiche “DEI” (diversity, equity, inclusion), un insieme di pratiche niente affatto affini a Trump, adottate da aziende e organizzazioni pubbliche e private statunitensi per promuovere le minoranze svantaggiate o sottorappresentate; fortemente sostenute e applicate nella Silicon Valley, sono state di recente abbandonate da molte aziende, incluse le big tech.
Ma ancora più evidente è il cambio di strategia di Meta, fino ad oggi basata sul modello fact-checking, dove personale dedicato filtrava o bandiva contenuti ritenuti inappropriati. Con il nuovo approccio di Zuckerberg, già adottato da X di Elon Musk, saranno gli utenti stessi a giudicare i contenuti e a segnalare eventuali errori, rendendo più difficile arginare il diffondersi di notizie false o teorie complottiste e negazioniste.

Unendo i puntini, è probabile che questo disegno risponda al tentativo delle big tech di fare un passo indietro e allinearsi ai nuovi dettami trumpiani, rendendo il governo un alleato piuttosto che un ostacolo. Non stupisce quindi che i grandi leader tecnologici abbiano presenziato alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente.; un segnale forte che non passa inosservato. Precursore di tutto è stato indubbiamente lo stesso Musk, il cui sostegno al presidente Trump è più che noto; tanto da svolgere parte attiva sia nella campagna elettorale sia nel nascente governo: Musk condurrà infatti il nuovo Department of Government Efficiency. Insieme a lui due suoi stretti collaboratori: David Sacks, imprenditore, che guiderà la definizione delle strategie su intelligenza artificiale, criptovalute e libertà di espressione, e Jared Isaacman, in precedenza astronauta per SpaceX, ora a capo di quella Nasa di cui SpaceX è uno dei principali fornitori.

Il percorso è delineato e la direzione è chiara. Il timore è che l’oligarchia digitale delle big tech dilaghi nel sistema istituzionale americano, creando confusione (o sovrapposizione) tra politico ed elettore, controllante e controllato, produttore e consumatore; il tutto a discapito dei principi base su cui, dovrebbe, fondarsi la democrazia, anche quella americana. La scalata al potere dei leader tecnologici è ancora da definire.

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