Riccardo Milani è un buon regista: Come Un Gatto In Tangenziale è il suo apice, e la sua nuova pellicola non intacca il primato.
Se il buongiorno si vede dal mattino, il cast di questa pellicola di centotredici minuti è a dir poco luminoso. Antonio Albanese e Virginia Raffaele sono due mostri sacri del cinema italiano e insieme promettono scintille. Di certo (e giustamente) non devono essere costati poco, considerando che gli altri attori, con tutto il rispetto, sono di fascia medio-bassa. Il problema, però, è che di fascia medio-bassa è anche l’intreccio e lo sviluppo di questa storia.
Senza girarci troppo intorno, il nuovo lavoro di Milani non è altro che Io Speriamo Che Me La Cavo 2.0, senza però la forza di Paolo Villaggio e senza l’impatto emotivo di ambientare il tutto all’ombra del Vesuvio; spostare l’idea in Abruzzo dà solo la sensazione che non si volesse copiare in modo smaccato, come quando un amico ti passa il tema e tu due righe di tuo pugno le devi pur mettere. Il resto è imbarazzo: un depresso professore di città si confronta fiducioso con una piccola realtà di provincia, in questo caso Marsciano di Rupe (nome di fantasia della sceneggiatura), e scoprirà quanto bene è in grado di fare la cultura nelle vite degli abitanti ma anche quanto bene è in grado di fare la natura e chi la vive a pieno nella sua. Tutto visto e rivisto.
Lo dimostrano le battute tutte un po’ fiacche, la scontata ed inevitabile storia d’amore tra i due prof e la variopinta classe di bambini costruita a tavolino per sembrare reale, e quindi finta come un voto di castità di Rocco Siffredi. L’intenzione di raccontare l’umanità ci sarebbe pure: tra le tante storie che gravitano intorno alla sgarrupata scuola (ah no, così è come era chiamata nell’altro film) c’è la ragazza gay che non viene accettata dal padre e medita il suicidio, un paio di bambini dall’Ucraina e la paura che scompaia per sempre una certa identità rurale. Intenzioni: ma poi le premesse vanno pure sviluppate!
Un po’ come nel pessimo Flamina della Giraud, si dovrebbe ridere e non si ride. Ci si dovrebbe commuovere e non ci si commuove. Si dovrebbe riflettere e si finisce solo per riflettere su come si decida di finanziare un film potenzialmente interessante ma buttato un po’ via nella scrittura e ancor più nella recitazione. I comprimari sono macchiette a due dimensioni e questo nonostante i due geni della lampada salvino la baracca dal crollo totale. Tante cose, ma non abbastanza da riuscire nel miracolo di strappare un applauso per un lavoro mediocre e trascurabile.
Come detto in apertura, il regista è tra i talenti più importanti d’Italia, per cui prendiamo questo titolo come una semplice pausa dalla sua ottima cinematografia, ma allo spettatore dobbiamo dire, con onestà, che ci sono tanti modi diversi e migliori di trascorrere due ore. Anche solo con i piedi a mollo in una tinozza calda e una buona tisana in tazza tra le mani; un’immagine molto simile a come il cineasta romano ha scelto di rappresentare una regione che è un po’ più complessa di un presepe natalizio di Piazza Navona, con la neve alta tre metri, le pecore che girano libere come gli scooter a Roma e i pastori barbuti in grado solo di grugnire e alzare il naso in su in segno di rispetto.
Il consiglio a Milani è di non andare a sciare ad Ovindoli quest’anno!