Energia elettrica più cara e difficoltà per il fotovoltaico in Italia

In Italia paghiamo le bollette più care d’Europa, eppure ostacoliamo il fotovoltaico come settore guida della transizione energetica nazionale verso fonti di produzione rinnovabili.

 

 

Il surriscaldamento globale impone di ridurre i consumi energetici e di pensare ad un nuovo paradigma di produzione che verta su fonti di energia rinnovabili.
Al momento, circa il 45% dell’energia elettrica nel nostro paese è prodotta utilizzando il gas; questo lega inevitabilmente l’andamento dei prezzi dell’elettricità in Italia al gas ed innalza vertiginosamente i costi in bolletta dell’energia per imprese e famiglie italiane rispetto al resto d’Europa.

Solo nell’aprile 2024, il prezzo medio versato dalle aziende in Italia è stato pari a 86,8 euro al megawattora (MWh), quasi il triplo rispetto ai 28,2 euro della Francia e più del quadruplo se rapportati ai 13,6 euro della Spagna. Ad oggi, le fonti rinnovabili coprono il 37% circa del fabbisogno elettrico italiano, valore ben lontano dal 65% previsto dal PNIEC entro il 2030.

La soluzione in Italia c’è e si chiama fotovoltaico, con 1,7 milioni di impianti concentrati soprattutto in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ma in forte crescita su tutto il territorio nazionale grazie anche al sistema di incentivi legati al superbonus e ad una normativa semplificata che agevola l’iter autorizzativo. Infatti, solo nel 2023 sono stati installati oltre 300.000 impianti che garantiscono una potenza di 5,2 gigawatt in più rispetto al 2022.

Nella maggior parte dei casi si tratta però di impianti residenziali o di piccola taglia, montati principalmente sui tetti di appartamenti privati e con potenza inferiore a 20 kW. Diverso è il discorso per gli impianti di terra, che richiedono meno lavori di rinforzo strutturale e modifiche architettoniche garantendo allo stesso tempo una maggiore efficienza energetica, con costi di realizzazione pari ad un terzo rispetto agli impianti di piccola dimensione. Questo li rende più convenienti anche di carbone, nucleare e turbogas.

Il paradosso è che, ad oggi, questi impianti non godono di alcun incentivo e i permessi autorizzativi prevedono un iter tortuoso fatto di verifiche ambientali e urbanistiche, complice una normativa poco chiara in materia. In aggiunta, trattandosi di dimensioni considerevoli, questi impianti necessitano di superfici idonee su cui essere installati, superfici che devono essere individuate dagli Stati Membri così come stabilito dalla direttiva 2018/2001/UE. Questa si è tradotta in Italia nel decreto attuativo “Aree Idonee”, per la diffusione di impianti di grande taglia su tutto il territorio. Ma c’è un problema: la corsa al fotovoltaico delle multinazionali energetiche ha generato preoccupazioni rispetto allo sfruttamento di terreni agricoli e possibili danni ambientali.

 

 

A queste preoccupazioni risponde il “Decreto Agricoltura”, presentato a luglio in aula per la conversione in legge, con l’intento di vietare l’installazione di nuovi impianti fotovoltaici a terra su tutti i terreni agricoli ad eccezione di quelli già finanziati dal PNRR. Il rischio è che la sovranità alimentare del nostro paese venga compromessa dall’invasione diffusa di un fotovoltaico selvaggio su tutto il territorio nazionale.
C’è però da dire che il settore delle rinnovabili ad oggi offre oltre 150 mila posti di lavoro e attira circa 60 miliardi di euro di investimenti. In aggiunta, secondo ISPRA, in totale gli ettari occupati da impianti fotovoltaici sono poco meno di 18.000 e rappresentano solo lo 0,1% di tutta la superficie agricola disponibile. In sostanza, il Decreto Agricoltura potrebbe rappresentare un ingiustificato freno allo sviluppo, con bollette più alte per i cittadini e limiti per gli agricoltori rispetto alla possibilità di disporre liberamente dei propri terreni.

L’alternativa è l’agrivoltaico, ossia impianti progettati per consentire lo sfruttamento di terreni allo stesso tempo adibiti sia alla coltivazione che alla produzione di energia elettrica grazie all’installazione di pannelli sospesi ad almeno un metro e mezzo dal terreno. Ad oggi non costituisce però ancora un’alternativa percorribile a causa di costi maggiorati, tra il 30 e il 60% rispetto al fotovoltaico tradizionale, nonché per l’esposizione maggiore ai fenomeni atmosferici e ai cambiamenti climatici. Lo stesso PNRR stanzia 1,1 miliardi di contributi a fondo perduto per l’agrivoltaico, da allocare entro il 30 giugno 2026, per una produzione massima complessiva di 1,04 Gigawatt che dovrebbe contribuire al raggiungimento degli obiettivi PNIEC 2030.

È evidente che il gap resterebbe ancora troppo elevato da colmare senza la costruzione di nuovi impianti a terra, più efficienti e meno costosi; ed è irrealistico pensare che si possa compensare la loro potenza con quella ricavata dal fotovoltaico residenziale, magari coprendo tutti gli edifici italiani con pannelli solari. Tutto questo per tutelare un settore, quello agricolo, fortemente esposto già oggi ai cambiamenti climatici e destinato verosimilmente a dover ripensare ai propri paradigmi produttivi nei prossimi decenni a causa di un surriscaldamento globale penalizzante. Vale davvero la pena?

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