L’ennesimo, e probabilmente non ultimo, bombardamento nella Striscia di Gaza: non è pessimismo, è la condizione storico-geografica dell’area.
Domenica 7 agosto è entrato in vigore il cessate il fuoco in tutta la Striscia di Gaza che, grazie alla mediazione dell’Egitto, ha posto fine all’offensiva israeliana “alba nascente”, un’operazione che ha visto coinvolta l’aeronautica israeliana che per tre giorni ha bombardato l’area causando la morte di 45 civili, fra cui 16 bambini.
Il pretesto che ha portato all’innesco delle operazioni è stato l’arresto di Bassam al-Saadi, un alto dirigente del Movimento per il Jihad Islamico in Palestina, un gruppo militante palestinese identificato come responsabile di diversi atti terroristici antisemiti; è questo motivo che ha spinto la stessa organizzazione a minacciare ritorsioni contro il governo israeliano, il quale ha prima rinforzato la militarizzazione del confine e poi ha autorizzato il bombardamento dell’area.
Il governo israeliano ha giustificato l’atto affermando che l’azione era mirata proprio a destabilizzare preventivamente un probabile atto terroristico dei jihadisti del Movimento. L’operazione però si è svolta in maniera discutibile: il bombardamento infatti, seppur indirizzato su uno specifico obiettivo, ha colpito un’area con una densità abitativa doppia rispetto a quella di Roma, rendendo altamente probabile l’uccisione trasversale di vittime civili.
Le azioni militari israeliane messe in atto in questo frangente non sono un unicum, ma si sono verificate spesso nel recente passato, come nel 2008 quando i razzi israeliani uccisero 456 palestinesi. Il ripetersi di questi avvenimenti con le medesime dinamiche dimostra non solo la volontà israeliana a non modificare la metodologia delle proprie azioni militari, ma anche l’assenza di un’effettivo garante internazionale in grado di condannare l’operato israeliano e di impedire il suo ripetersi.
Le Nazioni Unite, la maggioranza dei governi internazionali, e le più importanti organizzazioni per i diritti umani riconoscono l’attuale controllo israeliano di Gaza, un territorio che in teoria dovrebbe essere sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, ma che invece è fattualmente sotto il controllo di Israele, che ne gestisce lo spazio aereo e marittimo, il traffico di merci e di persone e i valichi di frontiera, negando dunque una libera interazione fra la Striscia di Gaza e gli altri territori palestinesi della Cisgiordania.
La motivazione che spinge Israele a mantenere un certo controllo sull’area è il governo de facto di Hamas, l’organizzazione paramilitare fondamentalista islamica sunnita, che da decenni commette azioni terroristiche nell’area ai danni delle forze israeliane; ovviamente la disparità di risorse militari ed economiche fa sì che le offensive di Hamas si siano ridotte nel tempo ad azioni di disturbo e provocazione. Ciò è dimostrato anche dal fatto che la maggior parte degli omicidi di civili israeliani avvenga fuori dalla Striscia di Gaza, in città come Gerusalemme, dove la divisione è tanto tangibile quanto labile.
La Striscia di Gaza attualmente è un territorio martorizzato economicamente e socialmente da anni di offensive militari e di assenza di strategie politiche unitarie internazionali destinate al risanamento ed al mantenimento dei diritti cvili; è un territorio che per i Palestinesi significa identità, ma che ne rappresenta anche il dolore e l’instabilità politica, mentre per gli Israeliani è una semplice volontà e manifestazione di potere, una sorta di continuo significante nel quale attingere la propria semiotica nazionale per trovare se stessi e il proprio scopo.
Quando si verificano delle crisi politiche all’interno del governo israeliano spesso l’offensiva su Gaza viene vista come una possibilità per affermare il proprio potere e la propria stabilità; a dimostrarlo c’è proprio l’offensiva della scorsa settimana, usata come dimostrazione di forza per fini politici dall’attuale premier Lapid, subentrato dopo la caduta del governo di Naftali Bennett, nella convinzione che una manifestazione di forza da parte del governo centrale potesse portare gli israeliani, desiderosi di sicurezza interna, a confermare il governo di centro sinistra alle prossime elezioni, invece che cedere alla sirene allarmiste della destra di Netanyahu.
Il conflitto Israelo-Palestinese non ha soluzioni esatte e semplici, e il discorso non lo si può affrontare nella sua totalità all’interno di un articolo. Ci sono complessità storiche e geografiche che permeano l’area in ogni sua parte e che, con le loro continue evoluzioni, ne condizionano continuamente lo sviluppo e la stabilità; questa non è la sede per assegnare il torto e la ragione, però può essere uno spazio in cui ponderare i fatti.
Le azioni di Hamas, che in alcuni casi sono traducibili come rivendicazioni ed elogi di singole gesta di individui instabili e marginalizzati all’interno di un tessuto sociale frastagliato, non possono essere giustificate né dalla storia né dalla scarsezza della loro cifra bellica se paragonata a quella dell’esercito israeliano, però possono essere colte attraverso i numeri per quello che sono, ovvero delle azioni isolate e spesso suicide scatenate in molti casi dall’opera di persuasione di gruppi religiosi radicalizzati.
Dal 2008 sono morti 5603 Palestinesi e 251 Israeliani, secondo le fonti OCHA (Ufficio Nazioni Unite Affari Umanitari), ma l’impassibilità pratica adottata dalla pluralità degli attori internazionali pare emanare un preoccupante alone di neutralità giustificata probabilmente dalla reciprocità degli attacchi; numerose risoluzioni, incontri e accordi si sono verificati in passato con la mediazione delle maggiori potenze statali internazionali, ma l’intervento pratico atto alla mera tutela della vita umana nella striscia di Gaza è sempre mancato, al contrario dei bombardamenti.
In questa situazione le posizioni da assumere e assunte sono molteplici, e tutte insieme stanno formando una fitta ragnatela che cattura sciami interi di interessi e speculazioni politiche, ma che con la sua compattezza sta oscurando l’unica verità oggettiva della vicenda, ovvero che c’è, o che ci dovrebbe essere, una morale comune, scevra da interessi, e orientata al rispetto della condizione di essere umano.