Una fiction più che una serie tv; quel mondo di mezzo che visto così fa quasi sorridere.
È inevitabile avere delle aspettative alte su una serie prequel dell’omonimo film e che tocca argomenti simili a quelli delle ben più note Romanzo Criminale e Gomorra. Altrettanto difficile era coinvolgere lo spettatore per la produzione (sempre Cattleya) e riuscire a dare un pugno allo stomaco come è stato appunto nelle precedenti.
Nonostante l’enorme esperienza nella regia di Michele Placido che invero gira solo i primi due episodi, Suburra lascia veramente a desiderare benché vi siano delle prove d’attore pregevoli. Eppure le premesse c’erano tutte, a partire dalla produzione guidata da Gina Gardini con alle spalle una lunghissima esperienza di film e serie, per seguire con i tre registi, Placido appunto di cui credo sia superfluo rammentare i successi, Andrea Molaioli (10 David di Donatello con La ragazza del Lago) e Giuseppe Capotondi.
Ma tracciamo la storia dal suo inizio, storia che vede la famiglia criminale romana degli Adami (nella realtà i Fasciani) contrapporsi a quella zingara Sinti degli Anacleto meglio nota alla cronaca come quella dei Casamonica, tra di loro a controllare il confronto c’è l’autorevole Samurai (l’ottimo Francesco Acquaroli) che si riaggancia alla figura di Massimo Carminati, ex membro della Banda della Magliana con il quale chiunque voglia delinquere sembra doversi confrontare.
Proprio Samurai è l’elemento di collegamento tra tutti questi mondi ed i tre protagonisti, Aureliano Adami (un bravo Alessandro Borghi) lo zingaro Alberto “Spadino” Anacleti (Giacomo Ferrara) e lo studente spacciatore Gabriele Marchilli (Eduardo Valdarnini) che creano un sodalizio criminale improvvisato e privo di credibilità, cercando di pilotare l’affare più grande di tutti, una cessione di terreni del Vaticano sul litorale di Ostia.
Si tenta di romanzare la storia di Mafia Capitale, che ha rappresentato per Roma il primo vero grande processo per infiltrazione mafiosa, ma lo si fa malamente in modo quasi grottesco e nel romanzarla si è fatta apparire questa vicenda complessa, che ha coinvolto decine di persone tra dirigenti e funzionari, una semplice faida tra famiglie criminali.
Ma la bravura di alcuni, prima tra tutti Livia Adami (Barbara Chichiarelli alla sua prima davanti alla telecamera), non basta a sopperire alle pessime prove di altri e ad una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti.
A partire dal personaggio di Gabriele, figlio di un poliziotto, prima ricattato dal boss dei boss Samurai, con somme che farebbero impallidire anche un truffatore professionista, per poi assoldarlo e costringerlo a commettere addirittura un omicidio, quello di Tullio Adami (Federico Tocci), capo dell’omonima famiglia criminale nonché padre del suo migliore amico e sodale. Ciò scatena la guerra tra la famiglia che gestisce Ostia e gli zingari che vorrebbero prendersela.
Non fa meglio Claudia Gerini (Sara Monaschi) revisore dei conti in Vaticano, alla quale tutti si rivolgono per pilotare l’affare dei terreni. Prima organizza un festino a base di cocaina e prostitute per il Presidente della Commissione Vaticana Monsignor Teodosio (va bene i nomi di fantasia ma qualcosa di più credibile no?) per poi subire il ricatto di Samurai col quale tenta una improbabile alleanza.
Una serie lontana dallo spessore delle precedenti sul tema criminale e lontanissima dalla qualità del film da cui deriva, con un clima di recitazione generale che sembra più quello di una fiction, dove non si riesce a dare un senso di realtà, di pericolo che si è percepito in altri lavori della stessa produzione; sembra come se tante, troppe storie parallele siano state messe in un frullatore trasmettendo allo spettatore confusione e discontinuità, dove per i protagonisti non si vive mai la preoccupazione di cosa possa accadergli, dove un criminale dello spessore di Carminati si possa rivolgere seppur col ricatto ad un ragazzino per portare avanti i suoi loschi traffici.
Un prodotto con buone intenzioni, basato su una storia che è stata realtà recente e quindi ancora viva nelle menti di tutti, ancor più di chi vive nella capitale pur non riuscendo a lasciare traccia, che manca però di pathos narrativo e non riesce a fissare quella caratterizzazione dei personaggi che è fondamentale, non riuscendo a creare quei veri protagonisti carismatici come Ciro e Gennaro o il Libanese col Dandy.