Quel rito del Sabato mattina

La partitella del Sabato mattina è un rito. Da anni, un gruppo di non piu’ giovani ragazzi si ritrovano per giocare a basket un’ora e mezza presso la palestra di zona. Passano le stagioni, ma le facce piu’ o meno sono sempre quelle; c’è chi è arrivato presto per allenarsi, chi si è svegliato 10 minuti fa ed arriva al campo con il cuscino ancora incollato alla faccia, chi ha attraversato mezza città per correre appresso a una palla che rimbalza, chi è sveglio dalle 7 ed ha portato a scuola i figli, chi il figlio se lo porta al campo che è grande, grosso e piu’ forte del padre.

 

20140215 basketball

 

Cominciano sempre allo stesso modo, le partitelle del Sabato mattina: chi corricchia per scaldarsi, chi a correre prima del tempo non ci pensa proprio e si scalda tirando, chi arriva in ritardo, che la partita è già cominciata. Si fanno le squadre: un lungo di qua, un lungo di là. Uno che porta palla di qua, uno di là; e se non è un play puro gli dai un tiratore da fuori, che si spera che compensi. Un rimbalzista, uno che penetra e le squadre sono fatte, sperando che siano venute fuori equilibrate. Pari o dispari per chi inizia – che a fare la palla a due a freddo si rischia solo di avere due giocatori fuori subito per strappo muscolare – e come arriva il primo palleggio del portatore, cambia tutto. Quell’atmosfera da sonno, da ricreazione, da “mattina del Sabato” finisce; arrivano in un istante la concentrazione, l’obiettivo, quella voglia di vincere che le ragazze non capiranno mai (ma perchè è così importante per voi vincere? Non vi basta divertirvi? No, non ci basta).

Si parte subito male: gli avversari si portano sul 10-4, che sanno far pesare il fatto che hanno due lunghi e noi uno solo (l’altro è bassino e mezzo azzoppato), e che non va troppo a rimbalzo; dalla nostra abbiamo dei buoni tiratori dalla media, ma sono ancora freddi. Stringiamo le marcature e finalmente riusciamo a ingranare, tanto da riprenderli sul 14-14; poi arriva un break da tagliarci le gambe, con una serie di palle perse da far impallidire la peggior Virtus Roma della scorsa stagione. I tiri aperti non entrano, mentre loro continuano a metterla; il divario aumenta: +5, poi +8. Tripla nostra e tripla loro, e pausa sul 25-32. Pausa, che non ci sono nè orologi nè cambi; si dà tutto sul campo, fino a che ce n’è.

E’ difficile tenere il passo degli avversari: un pò perchè non è giornata, un pò perchè sotto canestro non c’è nessuno a prendere i rimbalzi, un pò perchè il gioco è ordinato ma di tanto in tanto escono passaggi telefonati che lanciano il contropiede avversario. Le facce sono contrariate, ma non per questo si smette di incitare i compagni; e quando piano piano inizia la scalata al punteggio sembra quasi che un raggio di sole stia entrando dalla porticina della palestra. Si difende forte, e magari non si chiamano neanche tanti falli in attacco che ci starebbero pure, perchè al campetto è così: te la devi giocare, anche un pò fisica, basta che il gioco sia onesto; duro, ma onesto, anche se così non riesci ad arginare quei giocatori che con una arcigna manata si prendono quel mezzo metro di spazio che gli consente di metterla dentro. Non si molla eh: loro la mettono da tutte le parti, ma il nostro gioco è ordinato, equilibrato, e nonostante tutto risaliamo la china fino al 49-51.

A questo punto è battaglia vera: i blocchi diventano granitici, i passaggi delle saette che “primo non farla prenderla all’avversario”, e non manca qualche urlaccio alla propria squadra per tenere alta la concentrazione. Ogni pallone è pesantissimo, e non si va mai su più o giù di un paio di punti: 62-64, 66-65, 66-67, col nostro lungo scatenato che le mette e ci tiene a galla. Poi cediamo: la fine si fa sempre più vicina, gli 80 punti decreteranno la fine della partita e siamo 68-74, palla in mano. Tripla nostra, 71-74, poi recuperiamo palla in difesa; aspetto un taglio, il lungo esce e gli scarico sul post, palla veloce all’ala piccola e tiro dal lato che si infila nel cerchio sfiorando la retina. 73-74. Il play loro scarica, la guardia entra e appoggia al tabellone, ma la palla rimbalza sul cerchio; un paio di rimpalli e la sfera finisce in mano al lungo loro che da fuori area la mette indisturbato: 73-77. Porto, scarico di lato ed entro a portare un blocco; il lungo esce, prende palla sul post ma aspetta troppo prima di scaricare e si fa intercettare il passaggio. Palla a loro; difendiamo forte, ma sul tiro è fallo: libero e possesso, ne hanno per chiuderla. Il libero è dentro, ma l’ennesimo appoggio sul tabellone stavolta non entra; recupero e imposto. “Dai che non è finita” urlo, ma siamo 73-78 e a loro basta un canestro per chiuderla. Entro in area, attiro i difensori, scarico sulla guardia che trova il nostro “mezzo-lungo”, che pure se azzoppato riesce a girarsi e a metterla dentro da sotto: 75-78. Loro fanno girare la palla, tiro dalla media che prende il secondo ferro e schizza via; facciamo girare la palla fino a che un’esterno in penetrazione la mette: 77-78. Ma questa è la palla decisiva, c’è elettricità nell’aria, e per evitare un loro canestro serve quel miracolo che puntualmente il Dio del Basket decide di concedere a chi continua a crederci. Palla a noi, scarico sull’angolo, ribaltamento sull’altro lato, la guardia entra ma si infrange su un muro di difensori e mi scarica. Centrale, appena fuori area. E’ quello il momento in cui smetti di pensare: non pensi che non hai questa gran percentuale e se giochi da play è perchè se bravino a mettere in ritmo la squadra, non a segnare; non pensi che se sbagli stavolta loro la chiudono di sicuro; non pensi che la palla pesa una tonnellata. Mentre il tuo marcatore cerca di recuperare la posizione salti, alzi il braccio e tiri. Quella palla che gira sembra salire all’infinito, e tutta la scena va al rallentatore. Vedi il tuo marcatore basso sulle gambe che si gira a vedere il tiro, vedi la tonnara sotto il cerchio dove tutti cercano di prendere posizione, vedi la palla continuare a salire, su, fino a che decide che ora basta, che la gravità abbia la sua soddisfazione. Là sotto sembra di assistere a una lotta fra gladiatori, una lotta fra creature che cercano di raggiungere la superfice, mentre lei, incurante del mondo sottostante fa la sua lenta corsa verso il canestro. Sono istanti interminabili: tocca il tabellone, appena dentro il quadrato; scende, sfiora il primo ferro ed entra nel canestro, muovendo la retina come la brezza estiva piega il grano da mietere. E’ 80-78, è vittoria dopo aver rincorso per praticamente tutta la gara, con io che mi ritrovo con le braccia alzate come fanno i bambini quando segnano.

Tornare bambini. E’ anche questo, il basket.

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