Mi chiamo Francesco Totti è un film di Alex Infascelli ed è bellissimo: l’ho visto e lo amo, anche da juventino.
Mi Chiamo Francesco Totti è un film bellissimo. Lo afferma uno juventino doc che non ha mai amato la Roma come squadra di calcio (Roma città sì, però!) né ha mai subito la fascinazione del Pupone. Ma qua si racconta altro, si raccontano le emozioni.
Il film, un lungometraggio di due ore scarse, è uscito per Vision Distribution ma la pandemia lo ha obbligato a “girare” principalmente sui canali on demand di Prime Video, Chili, Infinity, Rakuten e su Sky. Le occasioni per vederlo, quindi, non mancano. A parte Netflix, ci sono tutte le opzioni dello scibile. Ma la domanda è: perché vederlo? Ci sono diverse risposte al quesito.
Se sei un appassionato di calcio, qua c’è tanta roba. Anche se le prestazioni sportive (per fortuna) non sono il centro della narrazione, è chiaro che nella storia del capitano della Roma non possano mancare highlights e gol mirabolanti. Di prodezze in campo il Checco nazionale ne ha fatte tante e stupisce vederle messe insieme. Bombe da fuori area, calci di punizione a giro, colpi di testa, dribbling ubriacanti. Il repertorio dell’uomo che ha riportato lo scudetto nella capitale dopo più di vent’anni è pazzesco. Colpiscono le immagini del Totti bambino che già faceva giocate da fuoriclasse. Con la maglia della Lodigiani un biondo bimbetto faceva con la palla quel che voleva, per la disperazione dei difensori di allora già intenti a cercare di falciarlo come un’erbaccia ostinata. Il racconto sportivo dei Mondiali del 2006, vinti anche grazie al suo rigore contro l’Australia, è un capitolo del calcio moderno tutto da godere.
Se tifi Roma, il film è imprescindibile. C’è Trigoria e le tante facce meno note che la compongono. C’è il tifo degli anni novanta e duemila, ancora umano e sanguigno. Schiaffi a Giannini per il rigore sbagliato nel derby ma anche folle oceaniche ai cancelli dei campi sportivi ai tempi di Capello solo per dare amore a chi stava portando la lupa nuovamente in auge. In tal senso le due parti più forti sono la diatriba con Carlos Bianchi, un vero UFO del calcio moderno, e l’arrivo di Franco Sensi, il Presidente che ha veramente scommesso su Totti (vincendo).
Se cerchi una storia di sangue e sudore, il piatto è servito. Totti è un campione e lo è stato fin da subito. “Quanno carciavo io ‘a palla faceva n’artro rumore” spiega lui. Eppure a vent’anni ha dovuto lottare proprio con Carlos Bianchi che lo voleva scambiare per Litmanen dell’Ajax e a trent’anni con un brutto infortunio che ha rischiato di fargli perdere quel Mondiale in Germania che poi avrebbe vinto. Il duello con l’amico/nemico Spalletti, infine, è quasi uno Spaghetti Western degno del miglior Sergio Leone. Infascelli non censura nulla del campione e Francesco non ha più voglia di tenersi dentro bocconi amari. Il risultato è alquanto scoppiettante.
Se cerchi la vita, inquadrata tra amore e morte, la rappresentazione è completa. Ci sono le ziette di borgata che lo baciano quando va in Nazionale e gli amici di sempre orgogliosi del loro campione. C’è una San Giovanni anni ottanta tutta da rivedere e l’amore con la Blasi iconizzato con uno story telling perfetto. Il racconto della prima maglietta per Hilary (“6 unica”), per esempio, è comicità e passione insieme.
Ma il prezzo del biglietto Infascelli te lo rimborsa tutto alla fine. Con l’addio al calcio di Francesco Totti. Nessuno spoiler, ok, ma lasciatemi dire che ho avuto le farfalle nella pancia per almeno dieci minuti.
Mi chiamo Francesco Totti è un documentario ma anche una favola moderna. Un biopic ma anche un lungo servizio televisivo. Tanti linguaggi, tutti giusti, “parlati” da un regista ritrovato (o forse mai perso) a favore di un prodotto che asfalta ogni possibile altro tentativo di raccontare il capitano della Roma. “St’anni so’ passati veloci… ma pure pe’ voi”.