È ormai noto che i Black Sabbath sono considerati i padri fondatori del metal propriamente detto. Con The Sabbath Stones inizia la loro terza era.
Articolo originariamente pubblicato il 04/01/2003.
I primi 5 dischi dell’era “Ozzy” sono pietre miliari assolute del genere e, dopo due o tre album fiacchi e l’uscita di scena di Osbourne, i Sabs sono tornati alla ribalta nel 1980 con Heaven & Hell. Iniziava così il loro secondo ciclo, con Ronnie James Dio dietro al microfono; lo stile era completamente rinnovato e strizzava l’occhio al metal più moderno proprio della New Wave of British Heavy Metal. Seguì The Mob Rules e il bellissimo Live Evil che sanciva la fine anche di questo secondo periodo. Dio lascia, come aveva già fatto il batterista Ward, ed inizia la terza e confusa era del gruppo che si snoda attraverso cambi di formazione e dischi forse non troppo noti.
Sto parlando di Born Again (1983) con, alla voce, addirittura Ian Gillan dei Deep Purple; The Seventh Star (1986) molto blues e con un altro ex Deep Purple al microfono: Glenn Hughes; The Eternal Idol (1987) dove debutta Tony Martin, il cantante che poi resterà in formazione fino alla fine; Headless Cross (1989); Tyr (1990); una breve reunion con Ronnie James Dio per Dehumanizer (1992) e infine il ritorno di Tony Martin per quelli che restano i due ultimi dischi inediti: Cross Purposes (1994) e Forbidden (1995). Insomma, un marasma in cui l’unico elemento che resta fisso a tirare le fila è Tony Iommi, il sommo chitarrista-leader.
In seguito ci sarà la reunion celebrativa della formazione originale (con Osbourne, Ward e Butler), per alcuni concerti che sanciranno lo scioglimento definitivo.
Ora, il punto è: cosa ci offre il caotico periodo 1983-1995? I succitati dischi, sebbene meno noti e con i loro alti e bassi, hanno alcuni punti forti e il frutto di tali lavori è racchiuso in una raccolta intitolata The Sabbath Stones. Si tratta di un buon compendio della produzione dei Black Sabbath in quegli anni anche se, come tutte le raccolte, non sarà mai totalmente esaustiva (non si spiega l’esclusione di The Hand That Rocks The Cradle, pezzo di Cross Purposes).
Si parte con tre ottimi brani tratti da Headless Cross, che riprendeva un po’ le sonorità di Heaven & Hell, con la voce pulita di Tony Martin che aggiunge un tocco di melodia al tutto. La title track è accattivante e rappresenta uno degli apici della raccolta, When Death Calls alterna momenti melodici e stacchi potenti per poi partire in una strepitosa cavalcata e Devil & Daughter ha il classico incedere ritmato e andante che non può non coinvolgere. Quattro sono invece i brani chiamati a rappresentare Tyr: il discreto trittico Battle of Tyr-Odins Court-Valhalla, e The Sabbath Stones. Le prime tre sono praticamente una traccia unica con Battle of Tyr come breve introduzione; come si può intuire dai titoli, i temi sterzano sull’epico grazie alla partecipazione di Tony Martin nella stesura dei testi. The Sabbath Stones, invece, con i suoi toni più oscuri, ricorda da lontano la prima mitica Black Sabbath ed è un altro episodio riuscitissimo. Una sola traccia, la veloce TV Crimes, è presa da Dehumanizer che, in effetti, fu piuttosto fiacco nonostante il rientro di Ronnie James Dio.
A questo punto arrivano anche le note stonate e vengono dai pezzi di Cross Purposes: Evil Eye non è da buttare ma non esalta e Virtual Death è ripetitiva e terribilmente noiosa. Ribadisco che l’omissione di The Hand That Rocks The Cradle (che era il singolo del disco) è al limite del criminale oltre che inspiegabile. Comunque ci si riprende in parte con i tre brani di Forbidden. Anche se Guilty As Hell non è un granché, Kiss of Death è un brano particolare ed affascinante e Loser Gets It All, prima d’ora pubblicata solo in Giappone, risulta più che godibile. Per fortuna arrivano tre perle finali per chiudere in bellezza: Disturbing The Priest viene da Born Again e ci offre un inedito Ian Gillan alle prese con le sonorità pesanti e maligne dei Black Sabbath; è un ottimo pezzo che ci ributta prepotentemente nel passato. Sonorità originali anche in Heart Like A Wheel, grandiosa canzone tratta da The Seventh Star, disco pesantemente intriso di blues. Infatti si tratta proprio di una gemma di blues-rock in cui Iommi esprime la quintessenza del suo inconfondibile stile con assoli straordinari e sognanti; di sicuro il miglior episodio di questa compilation insieme a Headless Cross. Si chiude con The Shining, tratta da The Eternal Idol, altro gran bel pezzo che forse offre il lato più melodico della band.
Per concludere, direi che The Sabbath Stones è una raccolta che rispecchia gli alti e bassi dei dischi che vuole rappresentare. C’è qualche cedimento e qualche omissione ma anche molti ottimi pezzi che dipingono l’ultimo periodo creativo dei Black Sabbath prima dei vari reunion live. Rimane comunque l’unica raccolta che copra interamente il periodo ’83-’95, quindi da non perdere a meno che non possediate la discografia intera. I Black Sabbath devono essere sempre onorati!