Winning Time – L’Ascesa Della Dinastia Dei Lakers: la recensione

Serie imperdibile per i fan della pallacanestro; dieci puntate che narrano il primo anno in NBA di Magic Johnson, il più grande playmaker dei Lakers.

 

 

Dopo aver rivissuto i 6 anelli di sua altezza Michael Jordan con il documentario The Last Dance entriamo nel mondo del grande Magic Johnson, il giocatore che più di ogni altro (sì, anche più di Jordan) ha cambiato faccia all’NBA e lo ha reso il prodotto spettacolare dei giorni nostri, prodotto fruito da miliardi di persone in tutto il mondo. Il play alto 205 cm che tutti pensavano non potesse giocare da play. Il ragazzo disinvolto col sorriso dai denti bianchissimi e con una voglia di vincere sconfinata.

L’intera serie è girata come fosse un finto documentario: su alcuni tagli è applicato un filtro che fa sembrare le immagini uscite direttamente dagli anni ’80 e i personaggi spesso si rivolgono direttamente al pubblico infrangendo la “quarta parete”. Nelle scene di gioco vengono mischiati piccoli spezzoni originali delle partite per dare un maggior senso di autenticità allo spettatore.  Per vedere le prime scene di gioco, ahinoi, bisognerà però aspettare la fine della quarta puntata, probabilmente perché i personaggi artefici della dinastia vincente dei Laker sono molti e serve minutaggio per caratterizzarli degnamente tutti.

Oltre a Magic (Quincy Isaiah) c’è il grandissimo Karim Abdul Jabbar (Solomon Hughes), forse il centro più forte di tutti i tempi, nonché primo realizzatore della storia dell’NBA ed inventore del mitico “gancio-cielo”.
Poi c’è Jerry West (il Jason Clarke di Apes Revolution – Il Pianeta Delle Scimmie e Terminator Genisys, in grande spolvero), l’allenatore isterico che non si sente degno, un uomo perseguitato dalla sconfitta, scaramantico fino all’eccesso e non adatto alle pressioni della panchina, che però ha il merito di riconoscere i propri limiti e passare la mano; si licenzia poco prima dell’inizio della stagione diventando poi il GM della squadra. È lui che promuoverà ad allenatore Pat Riley (Adrien Brody vincitore di un oscar per Il Pianista di Roman Polansky), ex giocatore dei giallo-viola e futuro vincitore di ben 4 titoli.
Il frustrato Pat Riley, imprigionato davanti a un microfono a bordo campo a fare il commento tecnico per la radio, sa di avere ancora molto da dare alla pallacanestro ma nessuno gli dà credito; non fino a quando l’allenatore appena assunto al posto di Jerry West, Jack McKinney, che stava guidando la squadra alla grande, non si schianta in bicicletta e va in coma e Paul Westhead (un gradito ritorno sui teleschermi di Jason Segel di How I Met Your Mother) passa a primo e prende il buon vecchio Pat come assistente. I due insieme porteranno la squadra alla vittoria non senza parecchi incidenti di percorso.

 

 

Per ultima, ma in assoluto la più importante, la persona senza la quale la dinastia vincente dei Lakers non sarebbe mai nata: Dr. Jerry Buss, fresco proprietario della squadra, e self-made man Trumpiano ante litteram. Interpretato dal grandissimo John C. Reilly (il poliziotto di Magnolia), Dr. Buss rappresenta l’essenza vivente della spregiudicatezza di quegli anni, quando investivi una barca di soldi per realizzare i tuoi sogni, ma quei soldi non li avevi; quantomeno non tutti quelli che possono servire per creare un rooster vincente in NBA. Non si ferma davanti a nulla il Dr. Buss, nessun problema lo scoraggia, ha una fiducia illimitata in se stesso e nei soldi che spesso non ha. Uno dei primi a capire le potenzialità economiche dell’NBA, in un periodo in cui tutti stavano abbandonando la nave, rivoluziona completamente la fruizione della partita allo stadio ma, soprattutto, sceglie al draft come prima opzione Magic, offrendogli un contratto (altissimo per un rookie di quegli anni). Il tutto bevendo galloni di whisky come il buon vecchio Bud Spencer, fumando 60 sigarette al giorno e intrattenendo le conigliette, e non solo, della nota PlayBoy Mansion. Del resto siamo negli anni ’80 ragazzi, la decade degli eccessi, la decade del boom della cocaina…

 

 

Wining Time non parla solo di basket: è uno spaccato molto esaustivo degli anni ’80 e di alcuni di quei problemi che ci trasciniamo da quei tempi. Non a caso la serie è prodotta e diretta in parte da Adam McKay, regista e sceneggiatore dello strepitoso film per Netflix Don’t Look Up, forse la commedia nera che meglio ha rappresentato la decadenza della politica americana degli ultimi anni.

Gli sceneggiatori tentano di esplorare il mondo lavorativo dell’epoca, dominato da uomini che hanno poca considerazione e fiducia per le rare colleghe.
Nonostante Jerry Buss affidi ciecamente i conti della società alla madre contabile (Sally Field, l’indimenticabile madre di Forrest Gump) non ripone la stessa fiducia nella figlia, Jeanie (Hadley Robinson), assunta come stagista e foriera di idee innovative. Jeanie Buss è sostenuta da un’altra figura femminile, molto importante, quella di Claire Rothman (l’ottima Gaby Hoffmann, L’Uomo Senza Volto di Mel Gibson), unica donna nell’organigramma Lakers dell’epoca, che riveste il ruolo chiave di organizzatrice di eventi dell’arena dei Lakers, eventi che devono portare soldi nelle casse vuote della società nei giorni in cui non sono in programma partite. E Claire, insieme a Jeanie, ci riuscirà, eccome se ci riuscirà; riuscirà talmente bene che alla fine della serie verrà nominata vice presidente della squadra, ruolo quasi fantascientifico per il ’79. Attualmente invece la vera Jeanie Buss è presidente e proprietaria della squadra, prima donna a ricoprire questi ruoli in NBA.

 

 

Viene affrontato poi il tema del razzismo, come in Glory Road.
Il primo afroamericano a giocare in NBA fu Earl Lloyd nel lontanissimo 1950. Dopo 30 anni i giocatori afroamericani sono quasi la maggioranza ma vengono ancora sottovalutati e poco rispettati nonostante siano determinanti per “il bel gioco” essendo tecnicamente e fisicamente più dotati dei bianchi. Così il premio Rookie dell’anno non va a Magic Johnson, che vince il campionato al suo debutto, ma al bianchissimo – nella serie è dipinto quasi come un Redneck – Larry Bird. Per carità, immenso campione, ma non meritevole del premio per quell’anno. L’eccessiva sicurezza di Magic nei suoi mezzi viene vista come presunzione e sfacciataggine; non è accettabile che un nero faccia sfoggio del suo talento e si pavoneggi in pubblico nonostante ne abbia pieno merito. Come se l’American Dream fosse disponibile solo per i bianchi…

Consiglio vivamente questa seria a tutti gli appassionati del meraviglioso sport che è il basket, ma anche ai neofiti che non conoscono la storia di questa mitica squadra.

 

Winning Time – L’Ascesa Della Dinastia Dei Lakers, 2022
Voto: 7
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