Lo Stato italiano ha investito miliardi di euro in Fiat per incentivare l’economia del Paese; il trasferimento all’estero del gruppo mette a rischio questi intenti.
Da un’idea di imprenditori e professionisti torinesi nasce nel 1899 la Fiat, casa automobilistica appartenente a partire dal 2021 al gruppo Stellantis. E’ un errore pensare che alla Fiat competano solo le automobili: si tratta infatti del maggiore gruppo finanziario e industriale privato italiano del XX secolo, nonché della maggior casa produttrice di auto in Europa e della terza nel mondo. Nel tempo il gruppo ha cambiato due volte nome, fondendosi nel 2014 con Chrysler (da cui FCA) e nel 2021 con PSA Group con la nascita di Stellantis.
Nel corso della sua lunga storia, non è mai stato fatto mistero del ricorso al denaro pubblico da parte del gruppo, servito in parte ad industrializzare il sud Italia con la nascita di stabilimenti produttivi quali quelli di Melfi e Termini Imerese. A fronte dei miliardi spesi dallo Stato italiano, ad oggi faticosamente quantificabili, quanti investimenti sono stati dichiarati e quali impegni sono stati presi dal gruppo?
Circa il 40% degli investimenti Fiat negli anni sono stati erogati dallo Stato italiano. Difficile quantificarne l’importo; è noto però che, all’inizio dell’era Fiat, i dividendi fossero bassi e gli utili societari venissero utilizzati per accantonamenti e investimenti finalizzati alla costruzione dello stabilimento di Mirafiori. Nell’epoca Agnelli l’inversione di rotta: dividendi alti e ricorso a finanziamenti statali; quantomeno, fino ad allora, tutto ciò che Fiat reinvestiva lo faceva in Italia.
Con la nascita di FCA nell’ottobre 2014, la sede legale del gruppo viene spostata ad Amsterdam e il domicilio fiscale a Londra. Si riduce al contempo il ricorso a fondi pubblici sebbene, durante la pandemia da Covid-19, FCA abbia ricevuto finanziamenti dal governo per più di 6 miliardi, necessari a garantire il pagamento di lavoratori e dei fornitori e a mandare avanti gli investimenti produttivi in Italia.
Tuttavia, dal Registro Nazionale Aiuti di Stato risulta che dal 2016 ad oggi lo Stato italiano abbia riconosciuto a FCA (poi Stellantis) circa 100 milioni di euro cui si aggiungono circa 900 milioni in contributi INPS tra cassa integrazione, agevolazioni per assunzioni e contratti di espansione. Di contro, a partire dalla sua nascita, i lavoratori in Stellantis sono circa 10.000 in meno a fine 2023. Si tratta per lo più uscite volontarie, incoraggiate però dal gruppo con incentivi stimati tra i 30 e i 130 milioni di euro, con in più 3.000 nuovi esuberi previsti dalla Fim, che firma gli accordi per la cassa integrazione.
Per quanto riguarda gli azionisti, il principale è la famiglia Agnelli che percepisce circa il 15% dei dividendi, seguita dallo Stato francese con poco più del 6,4% e dalla famiglia Peugeot con il 7,1%, per un totale di circa 17 miliardi distribuiti da Stellantis fino ad oggi, di cui 2,7 solo alla holding di John Elkann ad Amsterdam.
E gli impegni produttivi? A Mirafiori nel 2006 si producevano più di 200 mila auto; ad oggi si rasentano le 21 mila. Oltre al numero di vetture, anche i modelli prodotti sono ridotti: la 500 elettrica e le Maserati Gt e Gran Cabrio. Un tema che non è passato inosservato al governo Meloni, con il conseguente tentativo di avviare il progetto di riconversione dello stabilimento di Termoli in gigafactory, stanziando circa 350 milioni; si aggiungono gli 8,7 miliardi del fondo Draghi nel 2022 da investire nel settore automotive entro il 2023.
Non è però chiaro come questi incentivi siano distribuiti all’interno del gruppo, che ad oggi esternalizza gran parte della propria produzione lasciando in Italia solo la 500 elettrica, la Jeep hybrid ricaricabile e la Panda a benzina. Ad esclusione della prima, il governo italiano si ritroverebbe quindi costretto a finanziare la produzione di modelli a benzina e ibridi che, raramente utilizzate in elettrico, rischiano di inquinare quanto un vettore a gasolio con conseguenti impatti sulle emissioni. I nuovi stabilimenti produttivi sono perlopiù distribuiti in Serbia, Marocco e Polonia, rendendo ancora più difficile per il governo italiano non solo controllare l’allocazione dei fondi erogati ma soprattutto vincolare Stellantis ad impegni precisi in termini di produzione e di occupazione sul territorio italiano. In sostanza, il rischio è che l’intento dello Stato italiano di far circolare l’economia del territorio si traduca in una pericolosa esternalizzazione in termini di produzione e di posti di lavoro in grado di depauperare progressivamente il nostro Paese.