L’ennesimo disastro idrogeologico ha causato vittime, sfollati e ingenti danni in tutta la Romagna: perché l’Italia sembra non fare mai opere di prevenzione sufficienti?
La distruzione e la desolazione che l’alluvione della scorsa settimana ha lasciato in Romagna sono profonde ferite che solcheranno per diversi anni questo territorio e le menti della persone che lo vivono.
Il cliché tutto italiano che recita “adesso è ora di intervenire” si è ripetuto anche questa volta, come ogni anno ormai da diverso tempo, mentre il dibattito politico imperversa furiosamente com’è consuetudine dopo eventi del genere; opposizione e Governo infatti si sono attaccati su più fronti, scambiandosi critiche sulla guida della Regione, sulla gestione dell’emergenza attuale, e sulla mancanza di interventi precedenti a scopo preventivo.
L’alluvione in Romagna è stata il frutto di una concatenazione di cause naturali e fattori morfologici strutturali di quella Regione che ha portato al disastro che si è verificato: un’area ciclonica di bassa pressione infatti ha favorito l’incontro fra correnti umide sud-orientali in risalita nell’Adriatico e coerenti fredde nord-orientali.
I fenomeni meteorologici sono stati amplificati dalla presenza della catena appenninica che delimita e cinge la Romagna nella parte sud-occidentale (effetto Stau); lungo i pendii delle cime appenniniche scorrono verso la Regione anche numerosi fiumi che alimentano i vari bacini idrografici, e che ovviamente hanno riversato sulla zona in pianura una quantità d’acqua ben oltre la soglia di straripamento.
Il rischio idrogeologico in Italia è paradossalmente un argomento ampiamente studiato; si conoscono le aree a rischio idrogeologico e la aree a rischio sismico eppure in tale ottica gli interventi non ci sono stati. Probabilmente l’immobilismo operativo della politica deriva dall’inconclusività e dalla complessità che in questo Paese hanno sempre contraddistinto il processo decisione – pianificazione – azione.
Questa per la classe politica dovrebbe essere l’occasione per ripensare il come e il dove fare politica: sarebbe forse il caso di attuare, da parte di tutti gli attori parlamentari, una logica apartitica, condivisa, e lungimirante nei confronti del problema idrogeologico e sismico in Italia. Bisognerebbe coinvolgere in tutti i processi i massimi esperti nazionali ed internazionali nei vari settori, senza timore di manifesta incapacità, ma con la decenza morale che anche un politico del XXI secolo dovrebbe avere.
In Italia i disastri naturali che si sono susseguiti nel corso della nostra storia (Vajont, terremoto dell’Irpinia, terremoto dell’Aquila, le alluvioni in Gallura e a Genova; per citarne alcuni) sono sempre stati affrontati con una mancanza di pragmatismo e di realismo politico che hanno condotto ad uno stallo processuale in funzione di una politicizzazione propagandistica della tragedia; anche in questa occasione la volontà politica dominante sembrerebbe essere lontana dall’unità d’intenti sperata e necessaria.
La gravità della situazione in cui versa il nostro Paese dal punto di vista della sicurezza sismica e idrogeologica potrebbe essere il fulcro dal quale e mediante il quale sviluppare una politica non fra parti, ma con le parti; servirebbe dunque una classe politica non intenta ad aumentare il proprio volume di consensi apparendo sempre come l’unica custode di verità, soluzione e candore morale.
La ricetta per il miglioramento della nostra condizione idrogeologica è complessa, ramificata e richiede una pianificazione a lungo termine, ma il primo passo forse dovrebbe essere una riforma etica dell’agire dei nostri politici, in quanto è questo l’aspetto più importante che determina e che condiziona maggiormente lo sviluppo di un Paese.
Con la consapevolezza di dover modificare alcune delle nostre abitudini in favore dell’ambiente, e con la speranza di un miglioramento climatico, probabilmente attendiamo tutti ancora un cambiamento politico.