La riunione del G7 ad Hiroshima ha portato sul tavolo delle grandi economie mondiali il rapporto tra Occidente e Pechino suscitando l’ira cinese.
Dal 19 al 21 maggio si è tenuto il summit G7 nella cittadina giapponese di Hiroshima. Il vertice, che riunisce le sette principali economie mondiali, è stato caratterizzato da due temi principali: la guerra in Ucraina e i rapporti occidentali con la Cina. Tanto gli Stati Uniti quanto il Paese ospitante hanno portato come punti di discussione principali le relazioni con Pechino, suscitando le ire del Governo cinese che ha subito convocato l’ambasciatore nipponico per riferire sull’accaduto.
Il Ministro degli Esteri cinese ha accusato il Giappone e gli altri membri del G7 di aver assunto un atteggiamento anti-cinese, violando il diritto internazionale ed interferendo negli affari interni di Pechino.
Ma a cosa si riferisce esattamente il Governo cinese? Il comunicato di fine lavori del summit non cita la Cina fino al punto cinquantuno, il che potrebbe far propendere per un’interpretazione poco severa della questione sinica all’interno del G7; il documento però va letto all’interno di una strategia più ampia che comprende gli ultimi anni della politica internazionale.
Il contenimento cinese voluto da Washington, dai dazi trumpiani in poi, è stato avallato negli ultimi anni dai partner statunitensi; il Giappone, alleato irriducibile degli USA, è uno degli ultimi e più fulgidi esempi.
Il comunicato del G7, pur contenendo dichiarazioni che mettono in luce la preoccupazione occidentale nei confronti della Cina, cita esplicitamente la volontà dei sette di non voler danneggiare Pechino compromettendone lo sviluppo e il progresso economico. Ciò che è stato scritto su carta non trova però piena conferma nella realtà: si pensi ad esempio al banno americano che ha privato l’accesso cinese ai semiconduttori, compromettendo l’ascesa tecnologica di Pechino.
Sulla scacchiera geopolitica si presentano quindi due squadre distinte capitanate da Washington e Pechino, uno scenario che molti osservatori hanno indicato come una nuova Guerra Fredda; macroscopicamente verrebbe l’idea di dare ragione a chi vede nella Cina una nuova Unione Sovietica, ma le differenze con il secolo scorso sono evidenti.
Stati Uniti e URSS non avevano alcun rapporto commerciale negli anni del Patto di Varsavia e gli incontri diplomatici venivano ridotti all’osso; ad oggi le economie di USA e Cina sono così profondamente legate che, nonostante le idee protezionistiche americane, gli interscambi tra le due superpotenze registrano cifre record.
Il duello occidentale con la Cina per la leadership mondiale è in corso da diversi anni ma gli eventi dal post-pandemia ad oggi hanno aiutato a canalare le istanze anti-cinesi verso Pechino.
Per comprendere meglio questo discorso serve introdurre l’altro grande argomento del G7: la guerra in Ucraina. Il sostegno dell’Occidente a Kiev è pressoché unanime mentre non può dirsi lo stesso per il resto del mondo; l’intesa tra Pechino e Mosca ultimamente ha subito un rallentamento, ma nei primi mesi dell’invasione Xi e Putin sembravano più vicini che mai. La guerra in Ucraina ha acceso poi un riflettore su Taiwan, il cui rapporto con la Cina assomiglia molto a quello di Kiev con il Cremlino.
Le sempre maggiori esercitazioni cinesi nello Stretto di Taiwan e alcuni scontri diplomatici, tra ultimi quello del Governo di Xi con la Lituania, rea di aver manifestato solidarietà ai taiwanesi, mettono Pechino in similitudine con Mosca.
Il Presidente Biden ha predetto un imminente disgelo nelle relazioni USA-Cina; ma ci possiamo fidare di queste dichiarazioni? Europa e Stati Uniti stanno seguendo una strategia che cerca di dialogare e nel contempo mantenere costante la pressione su Pechino. È un gioco difficile e imprevedibile che ha però un futuro già delineato: se nel breve termine le due parti non dovessero trovare una soluzione che riporti ad uno stato di tolleranza reciproca, il conflitto silente tra Occidente e Cina è destinato a durare e a crescere d’intensità.