Ad un anno dalla sua introduzione in Europa, qual è il bilancio dell’aliquota minima comune introdotta per le multinazionali ad alto reddito?
La tassa minima sui redditi delle multinazionali è un meccanismo fiscale che prevede un livello minimo impositivo comune (15%) per le imprese ad alto reddito, da versare nei Paesi in cui il reddito viene effettivamente prodotto. Il tentativo è quello di arginare e, dove possibile, combattere i meccanismi elusivi adottati dalle grandi multinazionali.
Il gioco è il più vecchio del mondo: stabilendo la propria sede fiscale in paesi a tassazione agevolata, o trasferendo somme di denaro (travestite da prestiti o servizi assicurativi) da una controllante ad una controllata dello stesso gruppo ma con sedi in nazioni diverse, le società riescono ad usufruire di aliquote agevolate; in Europa, le “mete” più gettonate sono Irlanda, Lussemburgo e Belgio. Questa differenza di aliquote fiscali da un lato incentiva la delocalizzazione nel vecchio continente, dall’altro alimenta un meccanismo di tipo elusivo di multinazionali come Microsoft, IBM, Google, Stellantis. È per esempio il caso di Apple, che in Europa ha sede in Irlanda, condannata dalla Corte Europea per aver evaso circa 13 miliardi di euro negli ultimi 10 anni grazie ad un accordo sottoscritto con il Paese “ospitante”.
Per questo motivo, a ottobre 2021 l’OCSE ha proposto un accordo, sottoscritto inizialmente da 139 Paesi, per l’introduzione dell’imposta minima che sarebbe dovuta entrare in vigore nel 2023. Le prerogative fondanti erano due: un’aliquota comune del 15% per i gruppi societari con più di 750 milioni di euro di fatturato presenti nei 139 paesi sottoscriventi, ed un sistema di ridistribuzione degli utili, derivanti dalla vendita di beni e servizi, verso quei Paesi dove questi ultimi sono stati effettivamente prodotti. Questo secondo punto diventa di fondamentale importanza (e di difficile verificabilità) per tutte quelle aziende che vendono beni immateriali, come i grandi colossi informatici.
Come sono andate realmente le cose?
Nel 2024, dei 139 paesi firmatari solo 45 hanno effettivamente adottato il meccanismo impositivo in questione; tra cui Francia, Danimarca, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Olanda, Austria e Belgio. Malta, Lettonia, Estonia e Lituania lo introdurranno nel 2030 a causa della scarsità di multinazionali effettivamente presenti e operanti sul proprio territorio nazionale mentre Spagna, Portogallo e Polonia risultano ancora inadempienti insieme agli Stati Uniti.
Proprio gli USA dell’amministrazione Biden, ancora indietro in termini di attuazione, sono stati grandi promotori dell’accordo. L’introduzione dell’imposta segnerebbe infatti una forte rottura rispetto alla legislatura precedente: nell’era Trump il taglio netto delle tasse ha consentito alle aziende americane di risparmiare circa 250 miliardi di dollari fino al 2021. Biden si era prodigato ad adottare l’accordo eppure, probabilmente, non riuscirà a tenere fede ai suoi impegni, almeno nella presente legislatura, a causa del voto contrario della Camera dei repubblicani.
E in Italia?
Nel nostro Paese le aziende sono soggette all’Ires, con un’aliquota del 24% sugli utili prodotti ad eccezione delle aziende in perdita, esentate integralmente dal pagamento. Ciò rende possibile, per i gruppi societari, dichiarare utili negativi in Italia e fatturare in paesi a tassazione agevolata, pagando meno tasse. È il caso di FCA Italy, che nel 2022 ha dichiarato un passivo di quasi 400 milioni di euro mentre la capogruppo Stellantis, con sede in Olanda, ha fatturato utili per 23 miliardi pagando all’estero le tasse. In generale, il nuovo meccanismo di tassazione si propone di sostituire quello introdotto dalla digital tax mantenendo lo stesso livello di introiti fiscali. Contrariamente, l’OCSE aveva stimato, almeno all’inizio, un incremento delle entrate derivanti da tassazione di circa 6 miliardi di euro all’anno. Qualcosa è andato storto?
Sicuramente, una grave falla nel sistema è che quest’ultimo si basa sugli utili dichiarati dalle aziende e non su quelli effettivi. Questo fa sì che la tassazione possa essere in qualche modo comunque orchestrata dalle grandi multinazionali. E poi, perché queste ultime dovrebbero essere soggette ad aliquote superiori rispetto alle società di piccole e medie dimensioni, finora non comprese nell’accordo? Da manuale, l’economia dovrebbe basarsi sul principio del libero mercato, della meritocrazia e della proporzionalità. Il timore è che a nuovi accordi, se percepiti ingiusti, possano corrispondere nuovi meccanismi o tentativi di elusione. Inoltre, l’adozione parziale dell’accordo da parte solo di alcuni paesi firmatari, potrebbe incentivare la continua delocalizzazione e la ricerca di altre mete industriali da parte dei grandi gruppi societari.