Dettare legge e farla rispettare: le due anime delle società di consulenza

Lo sviluppo sostenibile passa attraverso le grandi società di consulenza, evidenziando luci ed ombre di un sistema non del tutto imparziale.

 

 

L’economia green e i nuovi modelli di produzione, la prevenzione ambientale, la sensibilizzazione rispetto alle scelte di consumo sono solo alcuni degli aspetti di un unico, grande tema: la sostenibilità. L’altra faccia della medaglia è la resistenza al cambiamento delle imprese, principali veicoli per l’adozione di sistemi di sviluppo sostenibili ma anche, al tempo stesso, inquinatori dello stesso modello economico che alimentano, insieme ai consumatori.

Se fino a ieri, tuttavia, il termine “sostenibilità” era associato per lo più ad un atteggiamento virtuoso adottato da pochi produttori, oggi è diventato sinonimo di una esigenza reale, avvertita a livello globale, che la rende un obbligo più che concreto per governi e istituzioni. Per questo motivo, la definizione di standard produttivi da parte della Commissione Europea è una necessità fortemente percepita.
Si tratta di una necessità che, il più delle volte, per essere soddisfatta passa attraverso servizi consulenziali esterni, cui l’Europa fa affidamento nel tentativo di accorciare i tempi rispetto agli obiettivi da lei stessa prefissati circa la riduzione delle emissioni, l’implementazione dell’economia circolare, il riciclaggio delle materie prime e l’adozione di fonti di energia rinnovabili. Per questo tipo di consulenze fornite da Università, centri di ricerca ma anche (e soprattutto) grandi società multinazionali, sono stati spesi dall’Unione Europea svariati milioni di euro dal 2014 ad oggi.

Ma il paradosso di questo sistema è un altro: le stesse società prestano i propri servizi consulenziali sia a chi detta le regole del gioco sia a chi, quelle stesse regole, deve rispettarle. La Commissione è corsa ai ripari, definendo questi servizi un mero supporto tecnico non vincolante nelle decisioni finali; un parere del quale tenere o non tenere conto insomma e che, contestualmente, costa caro ai cittadini europei. Ma a prescindere dall’autonomia decisionale prontamente rivendicata dall’Europa, rimane comunque da chiedersi quanto queste società di consulenza possano realmente dichiararsi ed agire in modo imparziale, dovendo allo stesso tempo soddisfare esigenze di due clienti mossi da interessi opposti. Ad esempio, come si sposa il suggerire (o stabilire?) degli standard di emissione per il raggiungimento degli obiettivi europei 2030 con il mantenimento dei livelli di produzione di quelle imprese che a quegli stessi standard sono soggette, pena mancato ottenimento delle certificazioni green necessarie per il proseguimento delle proprie attività?

 

 

Anche perché, oltre a suggerire ad imprese private possibili strategie di mercato riconducibili al concetto di “meno costi e più profitti”, queste società offrono servizi ulteriori ai propri clienti, tra cui la revisione contabile e l’audit. Ad esempio, la consulente americana Ernst&Young cura la revisione del gruppo spagnolo di fast fashion Inditex; allo stesso modo, Deloitte per il gruppo H&M. Entrambe le società hanno preso parte alla task force per i cambiamenti climatici, ora discioltasi, che individua i criteri di valutazione degli impatti ambientali attraverso cui misurare, in Europa, le performance delle società quotate e con più di 500 dipendenti.

Indubbiamente, la lotta ai cambiamenti climatici è un mercato in continua espansione, che vale miliardi di dollari per i colossi della consulenza. È verosimile pensare che l’ago della bilancia per queste società sia riconducibile ad un mero fattore economico: quindi la domanda è su chi paghi di più, la Commissione o le imprese. Difficile quantificare gli introiti provenienti dall’uno o dall’altro cliente; vero è che, sulla base di un ragionamento puramente macro-economico, il numero di imprese che si rivolgono a consulenze esterne è sicuramente più significativo rispetto agli introiti derivanti dall’Unione Europea.

Inoltre, nonostante gli obblighi di trasparenza e di non concorrenza cui queste società sono soggette, i controlli effettivi da parte della Commissione sono il più delle volte formali e non mettono al riparo da potenziali conflitti di interesse; e questo per non parlare delle competenze di settore che queste società acquisiscono stando con “i piedi in due scarpe”. Ciò incrementa il loro potere di mercato e la dipendenza dei propri clienti; entrambi fattori che rischiano di viziare il sistema stesso in cui operano e di cui, a mano a mano, queste società deterranno sempre più le redini.

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