Erdogan e il fosco futuro della Turchia

Il Presidente-padrone dello stato anatolico vede la sua poltrona traballare a causa dei ritardi nei soccorsi e per la disastrosa situazione economica interna.

 

 

Il sisma che ha duramente colpito la Turchia e la Siria la scorsa settimana è uno di quegli eventi che, oltre ai drammatici effetti sulla popolazione, è destinato a lasciare una profonda traccia nella politica dello Stato più scomodo e difficilmente gestibile della NATO. La leadership di Erdogan non è mai stata così discussa internamente, e questo per una serie di decisioni prese dal politico turco.

Nei suoi venti anni di potere, Erdogan ha progressivamente ampliato il suo controllo politico sulla Turchia e trasformato il suo Paese da fidato alleato della NATO ad elemento di profonda destabilizzazione nello scacchiere politico del mediterraneo.
Su tutti i fronti immaginabili, la Turchia sembra aver cambiato radicalmente direzione: da democrazia è diventata una sorta di dittatura egemonica, sulla scorta di Russia e Cina; ha usato la sua posizione geografica come arma di pressione contro l’Unione Europea nel delicato quadro dell’immigrazione clandestina in arrivo da Africa e Oriente; ha sempre più osteggiato la presenza dei cristiani, tanto che le uccisioni di preti o credenti sono diventate la norma; ha tollerato e talvolta aiutato l’ISIS, fornendo rifornimenti e lasciando che attraversasse il suo territorio nella guerra contro i curdi; e si è progressivamente allontanata dalla politica comune NATO, fino a diventare un punto di riferimento politico per gli arabi del mediterraneo mettendosi anche in antitesi al Patto Atlantico come dimostrano il supporto a fazioni islamiche in Libia, la questione del possesso delle zone di mare al largo delle coste del Mediterraneo o la mediazione non certo disinteressata svolta fra Russia ed Ucraina.

 

 

Questo punto merita un’analisi a sé: Erdogan ha cercato nel corso del suo ventennio di affrancare sempre più la Turchia dalla sfera di influenza europea puntando a ripristinare una sorta di impero ottomano, centralizzando il potere nelle sue mani e schiacciando l’opposizione in modo sempre più duro. Dopo il tentato colpo di stato del 2016, del quale ancora oggi non è del tutto chiaro se in realtà Erdogan fosse a conoscenza e lo abbia gestito e controllato a suo beneficio, un numero incalcolabile di oppositori o personaggi semplicemente sgraditi sono stati incarcerati o sono stati costretti all’esilio volontario.

I metodi di Erdogan hanno fatto presa sulla maggior parte della popolazione turca, sempre più islamica radicale, allontanandosi da Istanbul e blandita con l’idea di una legittima crescita di importanza della nazione sullo scacchiere internazionale.
Gli stessi metodi hanno però allo stesso tempo allontanato sempre più la Turchia dal mondo occidentale che, fatti salvi gli stanziamenti elargiti al Paese anatolico per controllare i flussi migratori in transito sul suo territorio, ha ristretto o sospeso quasi ogni altro tipo di finanziamento. Con il peggioramento delle condizioni di sicurezza, molte industrie straniere hanno lasciato  la Turchia, e la Lira ha progressivamente perso il suo potere nei confronti delle principali valute internazionali; ciò può essere ricondotto anche ad una gestione economica tutt’altro che lungimirante da parte dell’apparato statale gestito da Erdogan, tanto che l’inflazione nel 2022 ha superato l’80% su base annua e non ha rallentato di molto nei primi mesi del 2023.

 

 

È ovvio come questi dati economici si riflettano su di una popolazione che non è mai stata ricca ma che negli ultimi anni aveva iniziato ad assaporare il benessere. Il governo in carica ha tentato di limitare lo scontento con misure assolutamente insostenibili come il pensionamento anticipato (a prescindere dall’età basta aver versato contributi per 20 anni) o l’aver raddoppiato il salario minimo, ma i ritardi nei soccorsi dopo il sisma del 6 febbraio potrebbero aver scavato un solco difficilmente colmabile per Erdogan.
Prima del terremoto i sondaggi davano addirittura in vantaggio il partito di opposizione, con solo un 33% abbondante di votanti pro-Erdogan. Le aree colpite dal sisma, e nelle quali le popolazioni sono in fermento, sono proprio quelle dove il bacino elettorale di Erdogan attinge a piene mani.

Se i sondaggi lasciano il tempo che trovano, specialmente in un Paese che ricorda più una dittatura che una democrazia, è vero anche che Erdogan rischia seriamente di perdere il potere. In questo caso è difficile pensare che abbandoni il trono senza colpo ferire; scenari più cruenti sono molto più probabili.
Se il terremoto potrebbe giustificare un rinvio della tornata elettorale, è altrettanto possibile che al momento delle votazioni avvengano importanti brogli che permetteranno ad Erdogan di restare al potere. Un’altra possibilità è quella di uno scontro armato, visto che dopo il già menzionato golpe l’esercito è stato profondamente epurato da comandanti di reparto non ciecamente fedeli al Presidente turco.

 

 

C’è poi un altro aspetto da considerare: un Erdogan perdente sarebbe un ottimo alleato della Russia. Putin potrebbe non lasciarsi scappare l’occasione di supportare, più o meno segretamente, lo sconfitto e permettergli di mantenere il potere con la forza, similarmente a quanto fatto in passato con Assad in Siria: questo implicherebbe un definitivo cambio di alleanza per la Turchia, incrinando il fronte sud della NATO e consentendo alla Russia di accedere ai segreti militari occidentali. Complessivamente, la Turchia da sola potrebbe non solo mettere in difficoltà l’alleanza che oggi supporta l’Ucraina, ma permettere di punto in bianco alla marina militare russa di dominare il Mediterraneo.

Insomma, il futuro di Erdogan impatterà ben oltre il mero scenario interno, e se da un lato la situazione economica interna della Turchia si farà sempre più insostenibile, si può scommettere, con la quasi totale certezza di vincere, che il Presidente-padrone non staccherà le sue mani dalle leve del comando senza tentare qualsiasi mossa.

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