Ha senso credere nella svolta ambientalista del World Economic Forum?

Troppi gli interlocutori interessati affinche’ nulla cambi: i paesi emergenti come Cina, India e Brasile; le lobby di plastica e petrolio; i rappresentanti dei vecchi sistemi economici.

 

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Da ieri a Davos si discute di cambiamenti climatici, di diseguaglianze sociali e di tante altre belle ferite che la nostra societa’ si e’ autoinferta. L’attenzione e’ soprattutto sul primo tema, visto che i primi effetti sono sotto gli occhi di tutti ma si continua a negare l’evidenza.

Non sono un fan di Greta Thunberg, la ragazzina paladina degli ambientalisti, ma non si puo’ negare che molte delle cose che dice siano giuste; a partire dal fatto che si parla molto ma si agisce poco o nulla.
Il mondo occidentale ha sollevato il tema da quasi quarant’anni ormai (inizialmente si parlava di buco dell’ozono), seguito recentemente da qualche altra nazione industrializzata piu’ avanzata (fondamentalmente il Giappone e la Russia). Eppure, tutti gli incontri ad alto livello che ci sono stati hanno portato ad accordi di massima mai rispettati o – peggio – da cui alcuni paesi si sono ritirati – si vedano gli esempi delle massime economie mondiali come gli Usa e la Cina.

 

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Gli Stati Uniti sono noti per non aver mai badato troppo ai livelli di emissioni nocive prodotte sul territorio nazionale. Il governo Obama, pessimo nel suo complesso, aveva perlomeno avuto la buona idea di sottoscrivere il trattato di Parigi, con cui ci si impegnava a ridurre fortemente l’impatto sull’ambiente. L’incontrollabile Trump, invece, ha deciso di ritirarsi da tale accordo per rilanciare l’economia americana; una scelta leggibile in chiave prettamente di politica interna (e non necessariamente legata solo al consenso elettorale) e che si lega a tutta una serie di misure che hanno oggettivamente prodotto enormi benefici per gli USA (un PIL che cresce ed una disoccupazione ai minimi storici). Il problema e’ che queste sono manovre che portano valore aggiunto solo localmente, ma il problema climatico e’ globale e nel lungo periodo questa scelta di Trump si rivelera’ quasi sicuramente drammatica per la vita del pianeta.

 

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La Cina, come d’altronde India e Brasile, sono economie che si affacciano oggi al tavolo dei grandi, e vogliono mangiare una fetta di torta a modo loro: cioe’ nel modo comodo ed irragionevole che ha tenuto il mondo occidentale dagli anni ’40 in poi. Sebbene Pechino abbia sottoscritto lo scorso Novembre quello stesso trattato di Parigi che menzionavo sopra, la realta’ e’ che non c’e’ un grande sforzo nell’incentivare il passaggio alle energie pulite: la Cina, nonostante i suoi tassi di inquinamento pazzeschi (in alcune citta’ e’ impossibile uscire di casa per diversi giorni dell’anno a causa dello smog), e’ ancora affamata di energia prodotta a basso costo cosi’ come l’India; sono paesi che stanno scoprendo il benessere e non hanno minimamente intenzione di ridimensionarsi per raggiungere lo scopo. Costi quel che costi.

 

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E se finora abbiamo parlato di politiche miopi, ci sono quelle smaccatamente legate al puro interesse economico del singolo o del gruppo di investitori; le scelte conseguenti non sono certo fatte per il bene dei piu’, ma per ingrossare il portafoglio di chi gia’ tanti soldi ha rastrellato.

A Davos si parlera’ tanto, si mostreranno filmati, si discutera’; e poi, come se nulla fosse successo, si tornera’ tutti a casa. Perche’ a Davos non si va per la conferenza, ma per stringere alleanze e condividere iniziative industriali e finanziarie. L’unica speranza che abbiamo e’ che si identifichi il campo dell’energia pulita come un mercato ricco di potenzialita’ e su cui investire; ma nella migliore delle ipotesi saremo comunque in un clamoroso e stupido ritardo che non impedira’ al nostro mondo ed al nostro modo di vivere di essere stravolti dalle reazioni di un pianeta che subisce quotidianamente le nostre violenze sull’ambiente.

 

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