Nello Yemen le scorte alimentari stanno per terminare, ma le sorti del piccolo Stato arabico non sembrano destare interesse nella comunità internazionale.
Un antico detto beduino afferma che nello Yemen non sono necessarie provviste alimentari perché ci pensa la natura a darti tutto il necessario; infatti, nonostante lo Yemen si trovi nella Penisola araba, una regione classificata come arida data la presenza di diversi deserti e di terre steppose, il Paese ospita al suo interno corsi d’acqua perenni e rigogliose colture sopratutto nella zona sud-occidentale.
Oltre a rappresentare un unicum climatico nella penisola arabica, lo Yemen gode di una posizione geografica che nel corso del tempo ha acquisito sempre più valore strategico, data l’apertura del Canale di Suez e l’intensificarsi dei trasporti commerciali navali.
Lo Yemen si affaccia infatti sul Golfo di Aden, uno dei crocevia fondamentali del commercio mondiale, e più in particolare sullo stretto di Bab el-Mandeb, una vera e propria porta geografica sul Mar Rosso, nonché area fra le più calde dal punto di vista petrolifero visto il transito di circa 3,3 milioni di barili al giorno.
Oltre al proprio territorio continentale lo Yemen possiede anche l’isola di Socotra che, oltre ad essere un gioiello paesaggistico tale da essere inserita nei patrimoni dell’umanità dall’UNESCO, rappresenta un avamposto di capitale importanza per la lotta alla pirateria; un fenomeno che raggiunge il suo apice proprio in quest’area.
Tutti questi virtuosismi geografici non sono bastati a rendere però lo Yemen il Paese che forse meriterebbe di essere. Infatti lo Yemen è da otto anni il teatro di uno dei più sanguinosi conflitti al mondo: 4 milioni di persone sono state costrette a lasciare il paese, di cui la metà bambini; su 370.000 morti accertati, il 60% circa ha perso la vita per effetti collaterali della guerra, e circa 20 milioni di persone attualmente necessitano di assistenza umanitaria.
Il conflitto yemenita affonda le sue origini nella continua contesa religiosa fra sunniti e sciiti che permea il mondo arabo, e che si tinge di forti connotati politici dal momento che questi schieramenti religiosi sono supportati dalle due nazioni che maggiormente rappresentano queste due correnti religiose islamiche: Arabia Saudita e Iran.
I sauditi affermano che il loro intervento militare, appoggiato anche da altri otto stati arabi a maggioranza sunnita, è volto alla salvaguardia del governo centrale riconosciuto dalla comunità internazionale, sotto attacco da parte dei ribelli huthi, un gruppo armato yemenita sciita finanziato con molta probabilità dallo Stato sciita per antonomasia, ovvero l’Iran.
Al netto della brutalità che si cela dietro ogni conflitto, ciò che disarma maggiormente in merito al conflitto yemenita è il ruolo che diversi stati occidentali liberali e democratici hanno avuto e hanno all’interno del conflitto stesso; 42 miliardi di dollari in armi è il contributo totale che ha ricevuto l’Arabia Saudita da alcuni governi europei come Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Danimarca e Belgio.
L’azienda italiana Leonardo, di cui il nostro Stato è il maggiore azionista con il 30% delle quote, è la dodicesima azienda mondiale nel campo della produzione di armamenti, e il suo terzo miglior cliente è proprio il governo saudita che dall’inizio del conflitto ha aumentato del 61% le proprie importazioni di armamenti a manifattura italiana.
Il “Trattato sul commercio delle armi delle Nazioni Unite” e la “Posizione comune dell’Unione Europea” sono due trattati internazionali che dovrebbero regolare il commercio di armi, vietandone l’export nel caso in cui quest’ultime dovessero essere usate per commettere genocidi, crimini contro l’umanità, attacchi contro i civili e violazioni della Convenzione di Ginevra.
Il problema è che entrambi questi trattati devono scontrarsi con sistemi legislativi e teorie dell’interpretazione nazionali diverse fra loro, che permettono di conseguenza ai singoli stati una certa mobilità e autonomia commerciale al di fuori di questi trattati, che restano in questo modo dei meri documenti: insomma fatto il trattato, trovato l’inganno.
Tutto ciò è ancora più sconcertante se si pensa alla profusione con la quale i governi europei si sono giustamente impegnati per difendere i diritti civili del popolo ucraino, una popolazione vessata militarmente da una superpotenza intenzionata ad estendere la propria ingerenza politica oltre i suoi confini stabiliti.
Le atrocità subite dal popolo yemenita sembrano però non destare troppo interesse a livello internazionale; infatti i crimini subiti da questa popolazione vengono solitamente giustificati come eventi trasversali occorsi per difendere la legittimità politica di un governo attaccato da un gruppo ribelle paramilitare come quello degli huthi.
Gli huthi hanno certamente contribuito alla destabilizzazione del paese e allo scoppio delle guerra con le loro azioni, ma la risposta saudita e, per estensione, internazionale, sembra essere indirizzata più alla distruzione generalizzata della società yemenita che alla lotta al terrorismo di matrice sciita.
La cultura millenaria yemenita e la popolazione che la custodisce barcollano fra le palme da dattero e le dorate dune del deserto, in attesa di un aiuto risolutore che forse potrebbe non arrivare mai.