Si definisce miracolo economico giapponese il periodo tra il 1945 e il 1991. In meno di cinquanta anni il Giappone diventa la terza economia mondiale.
Per moltissimi Paesi il 1945 ha rappresentato una svolta storica, nel bene e nel male: per alcuni è diventato simbolo di libertà; altri invece hanno conosciuto solo il cambiamento della bandiera dell’oppressore di turno. Per il Giappone, la durissima e vergognosa sconfitta militare ha significato una cesura e la base per una futura vigorosa e sorprendente rinascita.
Gli anni della guerra sono stati difficili e costosi per il Paese del Sol Levante. Quando sul finire del conflitto gli Alleati riescono a raggiungere e bombardare direttamente il suolo giapponese, la situazione si complica ancora di più. Le bombe cadono senza sosta, e spesso colpiscono il cuore della potenza nipponica di allora come di adesso: l’industria.
Quando tutto si ferma, con la resa incondizionata di Tokyo, il Paese è in rovina. Circa due terzi dell’industria pesante è compromessa, milioni di soldati sparsi per lo scacchiere asiatico fanno rientro in patria senza un lavoro o una stabilità, mentre mogli e figli conoscono il pericolo della fame, quella vera però. L’importo calorico giornaliero del giapponese medio si riduce drasticamente in concomitanza della fine del conflitto. Le due bombe atomiche lasciano cicatrici ben più profonde di ciò che si vede nelle foto in bianco e nero, e trapassano gli strati di un popolo intero.
Eppure, meno di cinquanta anni dopo, il Giappone della fine degli anni ‘80 è una delle prime economie al mondo. Come è stato possibile? Come può una nazione sconfitta e distrutta compiere questo vero e proprio miracolo? All’indomani della capitolazione, e occupata da quasi un milione di soldati Alleati, il trattamento riservato al Giappone sembra virare verso un sentimento di punizione per tutte le malefatte degli anni precedenti.
La crescente polarizzazione tra il mondo liberale e quello comunista che segna l’inizio della Guerra Fredda, la posizione geografica del Giappone così vicina all’Unione Sovietica e, non in ultimo, la presa che avrebbe potuto avere su una nazione distrutta e impoverita, nonché occupata e punita, spingono – in primis – gli Stati Uniti a cambiare la propria politica e a mettere in campo una serie di aiuti (simile al Piano Marshall in Europa) per ripristinarne la stabilità.
Gli aiuti, strettamente economici e materiali, si intrecciano ad alcune riforme molto più profonde riguardanti la società e il modo di concepire la vita, il lavoro e i rapporti personali dei giapponesi. Si assiste infatti all’ammodernamento e alla democratizzazione dei luoghi di lavoro, con lo spezzare dei rapporti di tipo simil feudale tra lavoratori e aziende, incatenati in un sistema molto chiuso e per nulla competitivo, o tra i grandi proprietari terrieri (latifondisti) e quei braccianti che da affittuari della terra, ne diventano ora piccoli padroncini stimolati ad aumentarne la resa grazie anche alle nuove tecnologie disponibili. Nelle grandi città, con il ripristino della produzione, oltre che alla nascita di organizzazioni a tutela del salario e del salariato (i primi sindacati giapponesi), nascono le così dette “Keiretsu”, conglomerati di imprese intrecciate tra loro su molti piani, giuridici e non, al fine di garantire crescita, stabilità e un unico grande scopo: massimizzare il profitto. Tutto ciò è possibile grazie soprattutto all’abilità dei governi giapponesi, appoggiati dagli Stati Uniti, di dettare i ritmi e le giuste politiche, capire dove intervenire e dove invece farsi più da parte e lasciar campo libero alle visioni e aspirazioni di una società in cerca del proprio riscatto.
Sembra quasi brutto scriverlo, ma l’annientamento del “vecchio” e la distruzione fino al 1945, hanno permesso una ricostruzione totale e con nuove basi. Il Giappone dunque cresce, e lo fa rapidamente. La rapida e forzata demilitarizzazione del 1947 libera ingenti fondi che vengono dirottati verso la crescita, mentre qualsiasi forma di surplus da esportare viene rapidamente assorbita dagli Stati Uniti. È un treno che sta andando veloce.
Un grande evento, lo scoppio della Guerra di Corea del 1950, si rivela fondamentale per l’economia giapponese. La vicinanza alla penisola coreana e la presenza di forze statunitensi in Giappone, fa diventare quest’ultimo un fondamentale hub militare e logistico per gli anni del conflitto e non solo, con una notevole spinta interna ad adeguare la propria produzione ai canoni tecnologici (dunque importando massicciamente nuova tecnologia) e ai livelli richiesti da un fiorente mercato estero. In questi anni si assiste alla nascita di moltissime aziende, libere di operare in un contesto agevolato fiscalmente e politicamente sia nel contesto nazionale che internazionale. La direzione pare essere quella giusta e il recupero quasi completato quando, nell’aprile del 1952, si assiste alla fine dell’occupazione Alleata in Giappone. Il pericolo che questo Paese sconfitto possa essere sedotto dall’ideologia bolscevica è scampato, l’economia giapponese sta galoppando e di segni del passato conflitto se ne vedono sempre meno.
Il ventennio successivo si rivela quello più prospero per i giapponesi. La domanda interna cresce, e non per i beni di prima necessità ma per quelli riservati alla sfera del divertimento, intrattenimento e tutto ciò che deriva da un benessere collettivo. Le politiche economiche adottate a livello nazionale permettono al Giappone di crescere di più del 10% all’anno, per moltissimi anni consecutivi, con un raddoppio della propria economia ogni otto anni (numeri pazzeschi a pensarci oggi). Gran parte di ciò che oggi ammiriamo di questo Paese, come la tanto efficiente quanto intrecciata rete ferroviaria e il complesso ma funzionale sistema urbanistico, nasce in questo periodo.
Una prima battuta di arresto si ha con la crisi del petrolio del 1973 quando la produzione rallenta di diversi punti percentuale -intorno al venti percento- e subisce un secondo colpo sul finire del decennio, il tutto sempre legato al crescente prezzo del petrolio (il Paese importa molto). A differenza di molti Paesi occidentali, i quali subiscono il contraccolpo in maniera molto più vistosa, la flessibilità del Giappone di adattare la propria produzione con l’impiego di nuova tecnologia richiedente meno materia prima, lo salva e ne permette una rapida ripresa.
Fino al 1989 il Paese cresce, ma in concomitanza con gli storici eventi del biennio 1990-1992, si arresta anche la decennale galoppata nipponica e si avvia a una stagnazione economica che dura fino ai giorni nostri. I giapponesi chiamano questo periodo come “i decenni persi”.