MotoGP 2020: una stagione di transizione – prima parte

Si è appena conclusa la stagione di MotoGP, e sono numerosi gli spunti di riflessione che ci lascia.

 

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Che sarebbe stata una stagione strana lo avevamo capito fin da subito. L’emergenza sanitaria che ci sta tutt’ora colpendo non poteva non influenzare anche il Motomondiale, uno degli eventi sportivi più famosi e che muove enormi masse di denaro grazie agli sponsor e agll appassionati che invadono i circuiti nei weekend di gara è enorme. Probabilmente l’impatto è stato più visibile nelle categorie inferiori, ma visto il perdurare della situazione non si può escludere che la prossima stagione non si porti appresso degli strascichi tecnici (fondamentalmente scelte indirizzate al contenimento dei costi a scapito dello sviluppo tecnico).

E’ stata una stagione di transizione non solo per l’assenza del pubblico in pista, per la mancanza di diverse piste storiche e per un calendario compresso in poche settimane, ma soprattutto per aspetti tecnici legati alle moto. Se è vero che tutto lascia pensare ad una nuova vittoria mondiale di Marc Marquez se non si fosse infortunato seriamente ad inizio stagione, la sua assenza ci ha consegnato un campionato del mondo completamente stravolto: livellato (verso il basso, oggettivamente) ma dove veramente si sono potuti vedere i valori reali dei bolidi a due ruote.

 

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Le Moto

 

Ducati ha oggettivamente deluso. In crisi di rapporto con Dovizioso e di prestazioni in generale ha trovato un Miller decente che specialmente nella parte finale di stagione ha dimostrato di essere veloce (ma non certo un campione). Con un Petrucci non pervenuto (per non parlare di Zarco e Bagnaia), non si può non notare come la Ducati abbia mancato di qualcosa: piloti non all’altezza o una moto non competitiva? Nel corso degli anni la scuderia di Borgo Panigale ha bruciato tanti piloti anche di primissimo piano (Lorenzo e Rossi su tutti), e gli unici capaci di portare a casa veri risultati sono stati Stoner e Dovizioso; entrambi si sono lasciati male con la scuderia italiana. Evidentemente c’è un problema strutturale che va risolto: umano prima che tecnico. Qualcosa in Ducati non va e non si è in grado di capire cosa; gettare la croce sui piloti, che da sempre lamentano una moto difficilmente gestibile, è stupido e controproducente.

Lo stesso discorso vale per la Honda. Nel paddock la moto giapponese è riconosciuta come la meno competitiva del lotto, ed infatti nella classifica finale troviamo Nakagami decimo, primo dei piloti in quota alla scuderia alata; Alex Marquez, la brutta copia del fratello maggiore, quattordicesimo; Crutchlow addirittura diciottesimo subito davanti Bradl. Il giapponese e Marquez Jr in Moto2 hanno dimostrato di saper stare davanti, mentre i due veterani della MotoGP hanno in passato ottenuto risultati importanti. Forse la Honda di quest’anno era veramente una moto sotto tono, e solo le qualità di Marc Marquez ne hanno mascherato le carenze nelle prime gare; ma è anche vero che sono anni che la Honda non è più competitiva ai livelli più alti, e che la differenza la fanno i piloti. Insomma paradossalmente continua ad essere una moto vincente solo grazie al valore aggiunto dei suoi piloti: Stoner prima e soprattutto Marc Marquez poi.

 

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Yamaha è stata un oggetto misterioso per tutta la stagione. Fortissima all’inizio, assolutamente non competitiva sul finale di stagione, sembra aver goduto più di un lavoro riflesso dato dallo sviluppo fatto con Valentino Rossi negli anni precedenti e di buone prestazioni individuali dei suoi piloti (Morbidelli l’unico costantemente competitivo). La casa di Iwata si trova di fronte ad un punto di non ritorno per la prossima stagione: con l’alterno Vinales e l’irruento Quartararo a guidare le moto ufficiali, il ruolo del collaudatore ricoprirà un peso ancora maggiore. Cosa ne uscirà fuori? E’ certo un peccato vedere la moto del diapason aver fatto numerosi passi indietro durante la stagione, dando di essere una moto buonina in tutto ma senza un vero punto di forza. Ci auguriamo che la scuderia giapponese possa ritrovare competitività e supportare i suoi piloti ufficiali, potenzialmente piloti anche più forti di quelli Suzuki.

Di Aprilia meglio non parlarne, visto che non si sa bene nemmeno se la casa italiana si ripresenterà nel 2021; invecele due più giovanicompagini della MotoGP hanno stupito.
KTM si può dire soddisfatta dei suoi risultati, con piloti ufficiali in quinta, nona e undicesima posizione generale ma che hanno dimostrato a più riprese di poter stare davanti. E’ forse eccessiva la dichiarazione del responsabile KTM (“il prossimo anno vinceremo il mondiale”), ma non si può negare che i progressi ci siano stati. KTM presenta un progetto interessante, oltretutto contando che la sua esperienza nella classe regina è molto limitata; forse con dei piloti qualitativamente migliori la casa austriaca potrebbe emergere ottenendo stabilmente risultati di rilievo.

 

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La vera sorpresa è però stata Suzuki; i suoi piloti, pur terminando primo e terzo, non hanno paradossalmente dominato il campionato, e se alla fine hanno portato a casa il risultato è molto merito della moto giapponese. Già la scorsa stagione Rins aveva dimostrato di poter essere un candidato al titolo 2020, e la moto, incredibilmente stabile e ben sviluppata ha consentito a lui e soprattutto a Mir, vincitore di una sola gara ma praticamente sempre a podio, di poter mantenere una costanza di risultati invidiabile. La Suzuki, lavorando in silenzio, duramente e soprattutto in modo efficace ha portato il suo pacchetto tecnico ad un livello di competitività spaventoso; i missili azzurri saranno probabilmente i riferimenti e le moto da battere anche nel 2021.

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