La Città Incantata: la recensione

I particolari sono curati alla perfezione ed i personaggi sono degni di un quadro di Bosch o di Tanguy.

 

Cari lettori, quello che vi apprestate ad andare a vedere (perché ANDRETE a vederlo, se non vorrete finire all’inferno, girone dei coglioni) è una vera pacchia per gli occhi. Da anni non vedevo un film così bello, ricco e visionario. Riassumere adeguatamente la complicatissima trama è arduo: quindi ci limiteremo ai sommi capi.

Una famiglia, padre, madre e la piccola Chihiko durante il trasloco in una nuova città si fermano incautamente in quello che sembra un parco giochi abbandonato: qui trovano un ristorante che sembra aperto, e nonostante le resistenze della piccola, che percepisce un pericolo imminente, i due genitori di lei si mettono a mangiare come maiali… trasformandosi in maiali! Da quel momento il trio è prigioniero del parco, in realtà un impianto termale a cinque stelle per spiriti, gestito da una vecchia strega. Sarà la piccola Chihico a salvare alla fine i genitori dopo incredibili avventure.

Come vi dicevo, l’opera, giustamente premiata con l’Oscar e l’Orso d’Argento, ha un impatto visivo incredibile. I particolari sono curati con maniacale perfezione, la pletora di personaggi che rappresentano gli spiriti ospiti delle terme sono degni di un quadro di Bosch o di Tanguy, gli scenari sembrano davvero essere usciti dai sogni. Abbiamo treni che corrono su oceani creati dalla pioggia coi binari appena sotto il pelo dell’acqua, strapiombi vertiginosi, pagode svettanti.

 

 

Gli spiriti e il loro albergo all’apparenza possono sembrarci ridicoli: dobbiamo però ricordarci che in Giappone è ancora fortissima la credenza tradizionale animista, molto simile a quella praticata dai Romani che veneravano i Penati e i Genii Loci: tutto possiede uno spirito, e nell’immaginario della favola di Miyazaki questi spiriti, come fossero persone umane, si dilettano a prendersi una bella vacanza in un lussuoso stabilimento termale, serviti e riveriti di tutto punto! Ciascun personaggio fantastico è studiato con grande abilità, sviluppato nei dettagli e reso pressoché vivo; inoltre, come in ogni favola della migliore tradizione, i personaggi fantastici rappresentano poi vizi e virtù degli uomini cui la favola è rivolta, con fine pedagogico (è in questa l’assoluta superiorità dell’anime giapponese sul cartoon disneyano, che è puro entertainment, fine a sé stesso).

Come in tutti i film dello Studio Ghibli il vero punto di forza, però, è nell’accuratissimo studio psicologico e simbolico dei personaggi: essi appaiono verosimili, assolutamente credibili perfino quando fantastici.

Quello che ad un attore in carne ed ossa può costare dieci riprese e diecimila smorfie allo specchio per esprimere uno sguardo, un’idea, un sentimento, per il cinema d’animazione è sufficiente una trentina di fotogrammi ben congegnati. Il cinema animato, infatti, si esprime per simboli prima che per metafore e per semplice impatto visivo, per questo ha anche più possibilità di essere profondo del cinema di recitazione.

Ebbene, è scontato dirlo, ma Miyazaki è proprio un maestro in questo: riuscire a far dire ad un viso disegnato molto più di quello che cento attori in carne ed ossa potrebbero. Il personaggio animato rappresenta esattamente quello che l’autore vuole, mentre l’attore ci trasmette quello che lui pensa che il regista voglia, interponendo tra noi ed il messaggio un ulteriore diaframma di comprensione.

 

 

Ma bando ai discorsi alla Ghezzi, torniamo a La Città Incantata.

In questo film, a differenza degli altri che lo hanno preceduto, le tematiche ambientaliste care alla coppia di registi dello Studio Ghibli non hanno uno spazio eccessivo: Mononoke Hime trovava i suoi limiti proprio in questo estremismo ambientalista che finiva per essere ripetitivo e anche stucchevole. Questa favola non ha una morale ben precisa, ma molte diverse, è sfaccettata e non offre una linearità scontata. È la storia di come una ragazzina con la determinazione, la buona educazione, i buoni sentimenti possa salvare la pelle ai genitori.

Una storia classicissima ma quantomai inossidabile. Certo, quando si affronta una trama con tutte queste sfaccettature, qualcuna finisce inevitabilmente per rimanere mal rifinita, ma nella bellezza complessiva della pellicola diviene tutto sommato un peccato veniale. Sviluppare tutti i temi senza eccezione avrebbe richiesto una ben diversa lunghezza: ed il film già dura due ore.

Un’ultima nota: è tipico nei cartoni animati giapponesi cercare le citazioni, gli omaggi e i richiami ad altre opere di animazione; in questo, a quanto pare, ve ne sono in gran numero. Io ne ho beccate un solo paio.

 

La Città Incantata, 2001
Voto: 10
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