La minaccia dell’immigrazione clandestina per l’Europa

È una semplice questione di numeri: con questo afflusso incontrollato di immigrati da accudire, il vecchio continente va incontro al collasso sociale ed economico.

 

 

Il tema dell’immigrazione clandestina è uno dei più scomodi degli ultimi trent’anni. Utilizzando lo spettro del razzismo, si è voluto tappare la bocca a chi ha tentato di mettere in guardia sulle conseguenze estreme di una rivoluzione etnica annunciata. Ma si sa: i saccenti sono tali perché stupidi. O in mala fede.
Secondo alcuni, fra i quali una classe politica che grazie all’immigrazione clandestina può far proserare le attività di amici e confratelli (che si tratti di cooperative, ONG o aziende che sfruttano gli immigrati poco importa), avremmo un obbligo morale di accogliere chiunque sia in cerca di un “posto migliore”.

 

 

Questa storiella dell’accogliere tutti è una finzione, una menzogna che in quattromila anni di storia umana non è mai esistita; e per motivi ben specifici.
Chi arriva in un posto senza avere un lavoro, una situazione economica che gli permetta di mantenersi per un primo periodo, senza casa e senza un piano preciso su come gestire la propria vita diventa immediatamente un peso per il paese di arrivo: deve essere nutrito, accudito, curato. In cambio, il paese ospitante non riceve nulla; si tratta solo di umana compassione.

L’umana compassione, sentimento sacrosanto, non può però sostituire completamente le leggi nazionali, poste a tutela della sopravvivenza e della gestione di uno Stato e della sua comunità. I confini sono stati da sempre un elemento posto ad argine per bloccare individui indesiderati, malviventi, interrompere commerci di contrabbando, e anche proprio per evitare migrazioni di popoli in luoghi non pronti o non desiderosi di accoglierli.

Ogni anno arrivano in Europa centinaia di migliaia di persone che non hanno modo di sostentarsi, non hanno un lavoro o una casa; non hanno previdenza sociale o alcun tipo di supporto economico. E da quando è entrato in vigore l’accordo di Schengen, in Europa si è completamente perso il senso di cosa significhi un “confine”. La libera circolazione di persone e merci ha permesso lo sviluppo di una microcriminalità diffusa che oggi affligge le nostre città, e che è anche direttamente collegata con l’immigrazione clandestina; chi arriva sul nostro territorio infatti non trova un paradiso, e molti sono quelli che si dedicano ad attività criminali, sicuramente più remunerative e facili da perseguire rispetto alle poche occasioni di lavoro che offre il continente europeo.

 

 

Ma c’è di più: sia economicamente che socialmente, questa situazione non è sostenibile. Economicamente perché per ogni arrivo occorre trovare un sistema di sostentamento, ai danni di una collettività globalmente più ricca rispetto ad africani ed asiatici, ma che non per questo deve sentirsi in obbligo di sposare una prospettiva di vita peggiore; e socialmente perché non esiste nessuna integrazione possibile per un numero così alto di immigrati, che finiscono a rimanere autonomamente all’interno del loro perimetro etnico, formando quindi sotto-gruppi sociali che non hanno alcun punto di contatto con i nativi (noi europei). Questi sotto-gruppi sono bombe ad orologeria che regolarmente esplodono, come nel caso degli attacchi terroristici islamici portati da veri e propri commando o da cani sciolti; o dei quartieri messi a ferro e fuoco dagli africani e dagli arabi delle periferie londinesi o di Parigi; o dalle bande di arabi che imperversano nei centri del nord Italia o attorno alle stazioni del nostro Paese. Queste entità sono vere minacce per la tenuta sociale dell’Europa, i cui cittadini sono stati resi molli da un’insensata cultura di tolleranza e di inclusione a tutti i costi che ha voluto mettere da parte le regole del buon senso e del diritto del padrone di casa, e che ora si sentono assolutamente non tutelati e minacciati nella sopravvivenza culturale da chi, non desiderato e non richiesto, impone il suo arrivo.

 

 

Non è possibile trasferire l’intera popolazione africana o mediorentale in territorio europeo. Non c’è spazio, non c’è lavoro, e a breve non ci saranno nemmeno i soldi; continuare a permettere questi arrivi significa ridurre progressivamente i servizi che gli Stati possono erogare ai contribuenti, cioè coloro che permettono il sostentamento dello Stato, a beneficio di individui che invece nulla hanno dato allo Stato stesso.

Occorre rompere quella cortina di paura, di pudore e di sudditanza morale che impedisce di essere pragmatici, chiari e lineari: l’Europa non ha alcun obbligo morale o di diritto verso questi popoli, fatti salvi chi abbiamo abbandonato in circostanze indegne; è onere e dovere di africani e asiatici migliorare le loro condizioni di vita in patria invece di forzare la loro presenza altrove, magari cercando di imporre le loro tradizioni e le loro religioni. Sta a questi popoli ribellarsi ai loro governanti esattamente come fecero gli Europei a partire dalla Rivoluzione Francese.

L’Europa intera deve prendere azione oggi, prima che sia troppo tardi, anche con azioni drastiche e di primo acchitto difficili da digerire: ne sono esempi il rimpatrio forzato o la deportazione in Rwanda, misure annunciate dal Primo Ministro inglese Sunak (un immigrato figlio di immigrati regolari, tanto per dire); per altre nazioni, come la nostra, il trasferimento in isole di detenzione fino al momento del rimpatrio è un’ipotesi avanzata tempo addietro e che giorno dopo giorno abbandona l’area dell’assurdo per entrare in quella del desiderabile. Il decreto flussi pensato dal Governo Meloni nei fatti è solo un palliativo che non risolverà assolutamente il problema.

Solo con forti disincentivi e con scelte dure si può salvare un’Europa che, gestita per decenni da veri delinquenti e da folli, sta puntando a tutta forza verso l’autodistruzione.

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