Stanno per iniziare gli Europei di calcio; riviviamo la storia degli azzurri nella competizione continentale, un rapporto più intenso di quanto i risultati non raccontino.
Guardando al palmares della Nazionale Italiana, in mezzo ai quattro titoli mondiali che rappresentano il grande orgoglio della nostra storia calcistica, passa quasi inosservata la vittoria di un campionato europeo, precisamente quello dei 1968. Ciò non deve però far pensare che la massima competizione continentale per nazionali, nata nel 1960 ma già da tempo nei pensieri della UEFA, sia stata snobbata dalla compagine azzurra. Al contrario, negli anni ci sono stati risultati anche confortanti nell’ottica dei successivi impegni internazionali alternati a cocenti delusioni che non sono sfuggite all’attenzione della stampa sportiva e dei tifosi.
Dopo aver rinunciato alla prima edizione, in un periodo in cui il calcio tricolore soffriva l’onta dell’eliminazione dai mondiali del ’58 ad opera dell’Irlanda del Nord ed un livello tecnico generale non all’altezza delle aspettative, l’Italia si presentò bene ai successivi europei del ’64, con una netta vittoria ai danni della Turchia nel primo turno di qualificazione. Le belle speranze però si infransero subito sull’ostacolo successivo, l’Unione Sovietica campione in carica e forte della presenza del leggendario Jašin tra i pali. Nella partita di andata i sovietici, pur privi del loro celebre portiere, ebbero la meglio per due reti a zero, con i nostri in 10 per l’espulsione di un Pascutti insolitamente nervoso. L’uno pari del ritorno, con un rigore parato dal “ragno nero” a Mazzola ed il goal arrivato solo allo scadere con Rivera, estromise senza appello l’undici di Fabbri.
Il peggio sarebbe arrivato ai mondiali inglesi di due anni dopo, con la clamorosa eliminazione per mano della Corea del Nord. L’europeo del 1968 fu perciò l’occasione di un pronto riscatto per il calcio della penisola. Agli ordini di Valcareggi si muoveva quella che poteva essere considerata a tutti gli effetti una nidiata di fenomeni: il leggendario Zoff, il capitano Facchetti, “Picchio” de Sisti, Sandrino Mazzola e il tridente che poteva contare sull’inafferrabile Domenghini, il senso del goal di Anastasi e soprattutto su quello che tutt’ora è il massimo cannoniere degli azzurri, Luigi Riva detto Gigi. Dopo una partenza balbettante, in rimonta sulla meno quotata Bulgaria, il sorteggio presentò ancora una volta una sfida contro l’URSS. Non essendo ancora previsti i tiri dal dischetto, il pareggio a reti bianche al termine dei supplementari venne seguito da un sorteggio. Testa o croce, dentro o fuori: la scelta di Facchetti si rivelò vincente e permise di completare la rivincita, portando il paese organizzatore (sebbene questo prevedesse ospitare solo semifinali e finali) all’atto conclusivo, dove una coriacea Jugoslavia portò la partita al 120° minuto. Altri tempi, altre regole: essendoci un trofeo in palio, in questo caso si era stabilito di ripetere la partita dopo tre giorni, e finalmente l’Italia poté sollevare il primo trofeo dopo i mondiali dell’anteguerra, per di più davanti al proprio pubblico. Una bella soddisfazione per la stessa squadra che due anni dopo giocherà quella che verrà definita “la partita del secolo”.
Ma nel calcio, si sa, due anni possono essere un’era geologica. Si passò così dal trionfo europeo ed il secondo posto mondiale ad una cocente eliminazione ad opera del Belgio, che avrebbe organizzato il torneo finale del 1972 e che, nonostante tutto, dovette partire ai turni di qualificazione, a testimonianza di un meccanismo nell’organizzazione delle competizioni ancora ben lontano dalla perfezione. Valcareggi era ancora in panchina, c’erano sempre Riva, Facchetti, Anastasi e Mazzola, ed il turno di qualificazione andò tutto sommato bene, con anche un discreto numero di reti segnate. Ma uno scialbo pareggio a reti bianche a San Siro ed una sconfitta a Bruxelles stroncarono le ambizioni di bis sul nascere, e il goal su rigore di Riva al minuto 86, utile solo per consolidare la sua posizione di bomber assoluto, suonò come la musica di chiusura di quell’epoca.
Il feeling con gli europei sembrava essere finito: le qualificazioni dell’edizione 1976 parlano di un’eliminazione istantanea, in un girone che ad essere del tutto onesti aveva un coefficiente di difficoltà piuttosto alto, presentando due realtà importanti del calcio continentale come la Polonia ed i Paesi Bassi di Cruyff e del calcio totale. La rosa invero non era malvagia: c’erano ex campioni d’Europa e futuri campioni del mondo, e la panchina era affidata ad una coppia di maestri del calibro di Bearzot e Bernardini. Ciononostante, un pareggio senza segnature e senza scusanti maturato a Roma contro la Finlandia mise la parola fine al cammino azzurro ed accese una graticola mediatica che accompagnerà i due C.T. ben oltre il tempo limite, senza risparmiare frecciate a giocatori pur di valore assoluto quali Pecci, Graziani e Antognoni. Il pubblico non fu da meno, e fischiò la rappresentativa azzurra senza mezzi termini, completando una bocciatura in toto della campagna europea.
La tenacia del “Vecio” non conosceva tuttavia limiti, e dopo un grande mondiale in Argentina preparò l’europeo casalingo del 1980. La formula, sicuramente da far storcere il naso a chi non ha vissuto i tornei di un tempo, prevedeva due gironi da quattro squadre, con le due prime classificate direttamente in finale e le due seconde a giocarsi il terzo posto. Ancora lo stadio Olimpico e ancora il Belgio videro infrangersi i sogni di gloria di una selezione votata alla difesa ed alla solidità, con la ulteriore beffa del terzo posto perso ai rigori contro la Cecoslovacchia. I giornalisti più critici andarono a nozze, non perdendo occasione di sottolineare le sole due reti segnate in tutto il torneo (lasciando in secondo piano una certa dose di sfortuna nella partita decisiva) e preferendo concentrarsi sull’impostazione data da Bearzot alla squadra, considerata antiquata ed inefficace. Due anni dopo, lo stesso tecnico e gran parte degli stessi giocatori solleveranno la terza coppa del mondo.
Rapporto ricucito? Purtroppo no: le qualificazioni per il torneo del 1984 videro gli azzurri entrare in un vortice di risultati deludenti e polemiche, culminate con un pareggio in rimonta sul campo di Cipro dal quale il gruppo uscì con la consapevolezza di aver compromesso irrimediabilmente la propria classifica. Sul banco degli imputati, come da tradizione, l’allenatore. Reo di aver confermato in blocco tutti i campioni del mondo, ormai a corto di stimoli e condizione (in particolare un Paolo Rossi che sembrò aver smarrito la magia “mundial”), e di aver trascurato la presenza di molti giocatori talentuosi in rampa di lancio, si trascinerà queste accuse fino al modesto mondiale del 1986, sancendo di fatto la fine della sua storia da selezionatore e continuando il digiuno nella manifestazione.
L’arrivo di Vicini sulla panchina coincise dunque con un cambio nel modo di intendere le partite: squadra più votata a costruire il gioco che a distruggerlo, nomi di grande prospettiva e soprattutto l’entusiasmo per l’avvento di un mondiale organizzato in casa, quello che passerà alla storia come il mondiale delle “notti magiche“. Per arrivarci con la dovuta preparazione, Euro ’88 era dunque un perfetto banco di prova. Dopo un girone di qualificazione di alto profilo, un pareggio con i sempre pericolosi tedeschi e due vittorie contro Spagna e Danimarca proiettarono gli azzurri in semifinale, dove però ci fu ad attenderli la loro bestia nera degli europei, quell’Unione Sovietica che tanto aveva impressionato ai precedenti mondiali. Non bastò un Vialli in grande spolvero, e fu una sconfitta dolorosa ma necessaria per far crescere un gruppo dal sicuro avvenire che arriverà ad un passo da un sogno che si tramuterà improvvisamente in pianto per tutti i tifosi.
L’onda lunga della delusione mondiale finì per condizionare l’ambiente e si trasformò in un lungo walzer di addio per Vicini: in un girone dove l’Unione Sovietica, ancora lei, strappò l’unico biglietto disponibile per la fase finale, una nazionale sottotono venne sconfitta in Norvegia apparendo demotivata e statica, privandosi così della possibilità di partecipare ad uno dei più clamorosi eventi sportivi di sempre, dove la Danimarca (ripescata d’urgenza) dovette richiamare i giocatori che erano già al mare e giocò il torneo senza la minima pressione, arrivando addirittura a vincerlo. La firma sull’amaro finale fu l’ultimo goal in nazionale di Totò Schillaci, che provò a riagguantare gli scandinavi dopo il doppio svantaggio ma che sembrò più un messaggio di addio alla nazionale che fu.