Braccia tese, fasce multicolore, ginocchia a terra: è lecito fare propaganda politica durante eventi nati per sfidarsi unicamente sul piano sportivo?
Nei giorni scorsi si è fatto un gran parlare delle azioni di protesta ai mondiali di calcio del Qatar. Alcune riguardano problemi legati a regimi dittatoriali, e le proteste sono indirizzate al pubblico nazionale; altre sposano tesi di pensiero trasversali nella società occidentale, ed altre ancora mirano ad evidenziare le contraddizioni dei mondiali in corso.
Sul significato di questi vari messaggi ognuno di noi ha le proprie legittime idee, ed è giusto che le possa esprimere nel proprio ambito (anche se fin troppo spesso siamo vittime di pressioni sociali e censure). Ma quando si parla di eventi sportivi, specialmente quando si rappresenta una nazione e le sue molteplici sfaccettature, le idee personali vanno messe da parte.
Questa affermazione deriva da due semplici fattori strettamente correlati.
Il primo è che le manifestazioni sportive internazionali sono anche una vetrina per i Paesi che vi partecipano, ed è giusto ed auspicabile che esista un’etichetta formale di neutralità da seguire; come ogni atleta dovrebbe sapere, anche se i più sembrano ormai scordarlo, si scende in campo o in pista o in vasca unicamente per portare in alto il vessillo nazionale. Esprimire manifestazioni di dissenso o di supporto ad una qualsiasi idea o messaggio sociale travalica completamente il ruolo di un atleta; ma ancor di più, ed ecco il secondo fattore, le esternazioni degli atleti non necessariamente coincidono col pensiero del popolo che si rappresenta.
Gli sportivi hanno tutti i diritti di pensarla come preferiscono, ma devono scegliere oculatamente il momento in cui esprimersi pubblicamente. Se lo fanno mentre sono in campo, oltre a far indebitamente leva sulla presa che possono avere sui più giovani, automaticamente associano la loro maglia a quel concetto; e non è detto che quel messaggio rappresenti la propria tifoseria.
Nel corso del ‘900 lo sport è stato spesso oggetto di influenze di natura politica o sociale, cosa che ha sempre portato ad una strumentalizzazione dell’evento colpito dalla propaganda, con gli effetti conseguenti che si possono immaginare.
Possiamo ricordare la nazionale di calcio italiana, vittoriosa nei mondiali del 1934 e del 1938, motivo di vanto per il regime di Mussolini anche se molti dei calciatori erano contrari alle idee del fascismo; e nello stesso periodo temporale le olimpiadi di Berlino del 1936, usate da Hitler per sbandierare la forza del nazismo e la maestosità delle strutture realizzate per l’evento. Nel dopoguerra è impossibile dimenticare il pugno chiuso sul podio di due atleti di colore alle olimpiadi del 1968 a Città Del Messico e le edizioni di Mosca del 1980 e di Los Angeles del 1984, boicottate la prima dai paesi del blocco occidentale e la seconda da quelli del Patto Di Varsavia. E possiamo arrivare ai nostri giorni, con gli inginocchiamenti del Black Lives Matters o gli atleti russi banditi da ogni competizione sportiva dall’inizio della guerra in Ucraina a meno di rinunciare a rappresentare il proprio Paese.
Lo sport dovrebbe rimanere estraneo da politica, messaggi sociali e culturali; le olimpiadi moderne, per come le aveva intese De Coubertin, erano inizialmente proprio un momento dove conflitti e contrasti avrebbero dovuto interrompersi e lasciare il posto alla pura competizione degli atleti, e l’unica supremazia concessa essere quella del posizionamento della propria bandiera nazionale nel medagliere.
La cosa più corretta l’ha detta il capitano della Svizzera, che ha detto un’ovvietà ormai fin troppo poco banale, e che potrebbe riassumersi con un “siamo qui per giocare a pallone, giochiamo a pallone”.
In un momento storico dai durissimi contrasti sociali e dove la censura e la pressione sulle persone impediscono la libera espressione delle proprie idee, lo sport dovrebbe essere ancor di più lasciato fuori da ogni dibattito politico; ma oltre alla memoria dei fatti storici, in questa epoca si è anche dimenticato il buon senso.