Full Metal Jacket: la recensione

Tutti ricordano il sergente Hartman ed il suo “soldato Palla di Lardo”; ma oltre le scene di addestramento, Full Metal Jacket è veramente un capolavoro?

 

 

Sul finire degli anni ’80, il cinema americano concentrò la sua attenzione sulla guerra, specialmente quella del Vietnam. Si trattava di un tema ancora caldo visto che le ferite, fisiche e morali, lasciate nella società statunitense erano ancora vive e profonde. In quattro anni uscirono titoli dalle alterne fortune come Platoon, Hamburger Hill, Nato Il 4 Luglio e, appunto, Full Metal Jacket.

Quest’ultimo uscì nel 1987, e fu accolto con tripudio. Il film, diretto da Stanley Kubrick, era decisamente rivoluzionario rispetto ai suoi contemporanei per via dello stile narrativo: non solo crudo, ma quasi asettico. Raccontato in prima persona, Full Metal Jacket è quasi composto di due film in uno: il primo, quello dedicato al campo d’addestramento; il secondo, quello che vede il protagonista dislocato in Vietnam come reporter del giornale ufficiale dell’esercito. Ed ognuno ha le proprie peculiarità.

 

 

Ci troviamo di fronte ad un doppio volto che non si nota immediatamente, tanto che occorre almeno una seconda visione per riuscire a rendersi conto delle differenze stilistiche, anche importanti, tra i due minifilm; e questo perché la prima parte offre un impatto che difficilmente trova simili in campo cinematografico e che determina la fortuna di Full Metal Jacket.
Non starò qui a parlare delle epiche strillate contro il soldato Jocker, le assurdità di Palla di Lardo o le frasi del sergente Hartman, ormai entrate a far parte del linguaggio comune per la loro eccentricità; o le conoscete o dovete correre a vedere il film il prima possibile. No, non parlerò di questo: parlerò di quell’atmosfera che Kubrick realizza con sapienza grazie all’evidenziazione della spersonalizzazione del soldato, cosa che in parte accade realmente durante i periodi di addestramento base del personale militare.

 

 

Quello che forse manca alla prima parte è quel senso di cameratismo che si forma quasi subito fra compagni d’arme, e che invece sembra essere assente quasi del tutto; quasi tutto si incentra sulle vicende del personaggio Palla di Lardo e delle sue sfortune.
Ad ogni modo, la parte di film dedicata all’addestramento delle reclute è una delle cose migliori mai fatte nella cinematografia mondiale, e da sola merita la visione del film (e non una volta sola): Kubrick trasferisce in pellicola tutta una serie di emozioni che si provano effettivamente durante il servizio militare, situazioni da caserma senza sfociare in un becero antimilitarismo, e certe punizioni incomprensibili fino a che poi non ci si trova al fronte (vedi l’addestramento in Band Of Brothers). La prima parte del film carica lo spettatore di energia, quasi lo trasforma in una recluta pronta al suo battesimo del fuoco.

 

 

Ma che Full Metal Jacket sia totalmente un capolavoro, forse non è il caso di affermarlo. La seconda parte del film si sposta in Vietnam, e qui si vive soprattutto di rendita, di quell’adrenalina accumulata nell’ora precedente. Qui la trama perde ogni tanto di credibilità, forse per il voler enfatizzare e drammatizzare momenti che, se vissuti (girati) come nella prima parte del film, avrebbero riscritto la storia dei film di guerra. Certe scene sono prive non solo di realtà storica ma soprattutto di attinenza con le tattiche militari usate in quegli anni (per non parlare degli errori da recluta che fanno i veterani), ed enfatizzate ben oltre il lecito.

Certe sequenze al rallentatore, certi dialoghi, certi incontri col nemico sembrano diretti da un altro regista, tanto risultano posticci e fuori luogo. Se nella prima parte del film la visione è sempre coerente e credibile, qui spesso ci troviamo di fronte ad una retorica discutibile che sa tanto di stantio.
Che sia chiaro: la seconda parte del film è nel suo complesso buona, ci sono numerosi spunti interessanti e momenti intensi, ma scade parecchio rispetto alla prima.

 

 

Il protagonista è interpretato da Matthew Modine, che abbiamo visto in qualche altro film senza mai lasciare il segno (Birdy – Le Ali Della Libertà, Memphis Belle, Corsari, Stranger Things). Accanto a lui ci sono Arliss Howard, Adam Balwdin, Vincent D’Onofrio (Giochi Di Morte, Salton Sea) ed infine Ronald Lee Ermey, l’interprete del sergente Hartman che nella vita, oltre ad essere attore, è stato realmente istruttore dei Marines (Mississippi Burning, Seven, Dead Man Walking, Willard Il Paranoico).
Tutti attori di secondo piano, cosa che lascia pensare quasi che le fortune del film si debbano in gran parte a Ronald Lee Ermey, visto che uscito di scena lui la pellicola si infiacchisce.

Sebbene rimanga uno di quei film da vedere assolutamente, rianalizzare Full Metal Jacket a 35 anni dalla sua uscita al cinema lo condanna a scendere di un paio di gradini quel podio su cui è stato consacrato per anni.
Una delle cose buone che ha fatto Full Metal Jacket è stato oscurare Platoon, il film di Oliver Stone uscito l’anno precedente. Tutto retorica e spettacolarizzazione, oggi è una pellicola fortunatamente finita nel dimenticatoio; cosa che non sarebbe successa senza il film di Stanley Kubrick, che nonostante le sue pecche rimane comunque un ottimo film di guerra.

 

Full Metal Jacket, 1987
Voto: 8
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