Alla metà degli anni ’80, la situazione in Afghanistan rimane critica. Sovietici e comunisti locali non riescono a vincere una resistenza sempre più organizzata.
Se durante i primi anni di combattimenti in Afghanistan i sovietici si ritrovano a ad avere a che fare con improvvisate seppur efficienti formazioni guerrigliere appartenenti a una delle tante fazioni religiose o politiche del paese, andando verso la metà degli anni ’80 la situazione cambia. Gli aiuti esterni a supporto dei mujaheddin afghani si fanno sempre più cospicui, anno dopo anno, e a contribuire all’invio di armi, munizioni e soprattutto denaro non sono solamente paesi come gli Stati Uniti o il Pakistan, che possono vantare diretti interessi nella regione, ma anche Arabia Saudita, Cina e Regno Unito.
Un secondo canale di aiuti, non meno importante, è quello delle donazioni provenienti dai paesi musulmani, soprattutto quelli affacciati sul Golfo Persico. La progressiva militarizzazione, che vede l’adozione di sistemi d’arma sempre più complessi ed efficienti e una maggior capacità di addestrare gli uomini grazie ad ingenti aiuti esterni, impone alle formazioni combattenti una dovuta e sempre più strutturata organizzazione. Anche l’estensivo utilizzo della polizia segreta (KHAD) utilizzata nei primi anni dai sovietici per infiltrare numerosi gruppi islamici al fine di reperire informazioni, ma anche sviare e creare divisioni tra le tante fazioni, si fa ora meno efficace. I mujaheddin spesso offrono un macabro spettacolo quando mettono le mani su queste spie interne, in un messaggio collettivo rivolto sia agli amici che ai nemici.
Tra il 1982 e il 1985, anche per effetto delle grandi offensive sovietiche nelle impervie regioni montuose, le perdite russe aumentano in maniera significativa. Un danno di reputazione non solo agli occhi esterni, ma anche interni: il popolo inizia a recepire con crescente malumore il ritorno in patria di soldati morti o menomati per colpa delle tantissime mine antiuomo che i combattenti afghani utilizzano come trappole.
Arrivati al quinto anno di conflitto e con davanti una prospettiva poco rosea, da Mosca si tenta di realizzare quella che in gergo militare si definisce una “Exit Strategy”; una strategia di lento ma progressivo distacco dal conflitto in corso. I vertici di Mosca sono sempre più insofferenti e guardano alla leadership afghana, loro alleata, con crescente disprezzo. La sensazione è quella che Karmal e il suo governo abbiano del tutto abbandonato il conflitto, confinandolo a una mera questione sovietica, mentre la retorica di Mosca persiste nel definire il proprio coinvolgimento come ausilio alla lotta dell’esercito afghano regolare. Proprio in virtù di questa definizione, dal 1985 i sovietici concentrano le proprie risorse più nel dare una parvenza di efficienza e organizzazione all’esercito afghano, affidandogli sempre più funzioni e operazioni di combattimento. L’armata di Mosca scivola verso ruoli sempre più secondari, di supporto e formazione, spingendo sulla linea del fronte i regolari afghani che come abbiamo già visto di certo non brillano per capacità di combattimento e per il morale.
Il 1986 può essere considerato, nella decennale storia del conflitto, un anno di svolta e cambiamento. La scarsa fiducia di Mosca in Karmal e la voglia di risolvere la questione Afghanistan con mezzi alternativi si concretizza in una nuova politica per il paese. Mohammad Najibullah, ex capo della polizia segreta (KHAD) rimpiazza Karmal e da subito si rivolge alla nazione con termini concilianti. Non solo: parla ai musulmani, si definisce un seguace del Corano e apre all’accettazione di nuovi partiti e di trattative con le fazioni resistenti. Libera prigionieri politici e riesce persino ad imporre un cessate il fuoco per la fine del 1986, in vista del lancio di un ampio pacchetto di riforme politiche e sociali atte a ristabilizzare il paese martoriato. E’ l’inizio della stagione delle trattive, che continueranno fino alla fine del decennio.
A Kabul però, nonostante le ingenti aperture e il cambio di rotta adottato da Najibullah, la situazione rimane critica. Grandi porzioni della resistenza non si fidano della lealtà che Najibullah continua a mostrare verso Mosca, e decidono di continuare la lotta. Nelle trattative avviate, si discute di un ritorno del vecchio monarca afghano Zahir Shah, ancora molto popolare nel paese, come nuovo capo di una vasta coalizione di fazioni. La sua figura avrebbe la funzione di catalizzatore e stabilizzatore di tutte le grandi lacerazioni attraversate dall’Afghanistan negli ultimi due decenni, ma questa volta a complicare una probabile transizione ci si mette il vicino Pakistan, che come abbiamo visto risulta molto coinvolto nel conflitto ed è deciso a trattare solo con un governo afghano conservatore, chiuso alle interferenze sovietiche e decisamente non monarchico. Dopo sette anni di scontri dunque la questione afghana ha superato i meri confini geografici del paese, trasformandosi in una lotta di influenze politiche a livello regionale (Pakistan, Iran, Paesi del Golfo) ma anche mondiale, col coinvolgimento degli Stati Uniti nel fornire armi e supporto logistico ai mujaheddin, e col tacito supporto della Cina alla resistenza afghana.
L’Unione Sovietica, riconoscendo la crescente destabilizzazione in atto al suo interno, causata in gran parte dalla dispendiosa partecipazione in questo conflitto, cerca di divincolarsi sempre più concretamente, ma abbastanza lentamente da non provocare un generale collasso di Kabul e del suo governo. Il grande cambiamento arriva con Gorbachev, con i soldati sovietici che rientrano a casa e con un grande senso di stanchezza e disillusione generale che porterà alla conclusione del confitto e che tratteremo nel prossimo e ultimo articolo.