Cosa ha spinto l’Unione Sovietica a intervenire e combattere una guerra asimmetrica in Afghanistan tra il 1979 e il 1989? Scopriamo le motivazioni storiche.
Per dieci lunghi e dispendiosi anni l’Unione Sovietica ha impegnato il suo esercito nel tentativo di occupare e rinsaldare la propria posizione in Afghanistan. I fatti accaduti nel decennio 1979-1989 hanno poi, quasi come un domino, influenzato politiche e conflitti per i decenni a venire e a livello non più solo regionale ma globale, trascinando questa questione fino ai giorni nostri. La maggior parte di noi conosce l’Afghanistan per via dell’intervento degli Stati Uniti insieme alla Nato, a partire dal 2001, conclusosi definitivamente solamente nel 2021.
La storia del concreto coinvolgimento sovietico negli affari interni dell’Afghanistan, nazione musulmana e dalla geografia a dir poco impervia ma incastonata quasi nel ventre del grande impero condotto da Mosca, ha inizio nel 1978. Solamente cinque anni prima, nel 1973, un colpo di stato aveva deposto il monarca afghano e instaurato una prima repubblica guidata da Daoud Khan. Per riuscire nell’impresa, Daoud si appoggia, tra gli altri attori politici, anche al Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA) dalla forte ispirazione marxista-leninista. Una volta raggiunto il potere, Daoud cerca di rafforzare rapidamente la propria posizione, fondando un suo partito e mettendo al bando qualsiasi altra rappresentazione politica, compreso il PDPA. Si arriva così al 27 Aprile 1978, quando i militanti comunisti del PDPA riescono in un colpo di stato che rovescia la sempre più simil dittatura di Daoud, il quale perde la vita insieme a molti membri della propria famiglia. L’operazione riesce perché il PDPA, scisso precedentemente in due correnti ideologiche, una più estremista e una più moderata e aperta alle altre forze di sinistra del paese, trova la forza di ricompattarsi sotto l’obiettivo di prendere le redini dell’Afghanistan e di governarlo.
Nasce la Repubblica Democratica dell’Afghanistan. Nur Mohammad Taraki, leader della fazione Khalq (quella dalla linea più dura ed estremista) e già Segretario Generale del Partito, diventa il Capo di Stato del nuovo Afghanistan comunista. L’Unione Sovietica, ufficialmente solo osservatore di questa nuova situazione politica creatasi, si affretta a firmare un trattato di amicizia e cooperazione con la nuova Repubblica, felice di aver tolto dalle grinfie capitaliste questo vicino paese montuoso.
Non passa molto tempo prima che le intransigenti politiche economiche e sociali messe in atto da Taraki e dalla sua fazione Khalq iniziano a creare disagi e scontenti all’interno di una popolazione che in larghissima parte non si riconosce negli ideali di sinistra o ancora peggio comunisti, in contrasto con una religiosità fervente delle masse. La nascente campagna di terrore vede colpita anche l’ala moderata e ben più numerosa del PDPA, i cosiddetti Parcham guidati da Babrak Karmal. I membri più influenti vengono inviati in missioni diplomatiche, lontani dal centro di potere afghano, mentre Taraki accentra sempre più potere e attua delle riforme agrarie a dir poco impopolari, tanto che persino l’Unione Sovietica interviene diplomaticamente consigliando una linea decisamente più morbida e affine alle politiche dei Parcham. Taraki e i suoi non ascoltano e continuano a esiliare, incarcerare e uccidere oppositori politici, mentre ogni manifestazione di scontento popolare viene repressa duramente. Il governo, pur attuando riforme che a noi oggi possono sembrare giuste a livello socio-economico, si scontra con la forza della tradizione e della religione e trova nella repressione e nella violenza l’unico mezzo di comunicazione nel fragile rapporto tra autorità e popolazione civile.
La grande rivolta di Herat del marzo 1979, che vede l’ammutinamento di alcune unità dell’esercito in comunione con una generale azione di protesta popolare poi repressa nel sangue con migliaia di morti, preoccupa Taraki, il quale in virtù di precedenti accordi siglati con Mosca chiede supporto diplomatico e militare per riuscire a contrastare il dissenso interno. L’Unione Sovietica rifiuta e, in una visita ufficiale di Taraki su suolo sovietico, critica aspramente il percorso politico intrapreso dalla fazione Khalq. Un secondo tentativo viene fatto da Taraki in un incontro con Brezhnev e alti ufficiali sovietici, i quali in cambio di qualche aiuto militare convincono il leader afghano a rivedere la sua linea dura e soprattutto l’ala estremista di Khalq rappresentata in maniera negativa dal neo incaricato Primo Ministro afghano, Hafizullah Amin, ancora più intransigente e dannoso per il paese rispetto a Taraki.
Al suo ritorno, Taraki trova un paese de facto in guerra civile. Nei grandi centri abitati i comunisti tengono il potere politico e militare mentre nelle prevalenti zone rurali i combattenti ribelli, definiti Mujahidin e animati da una forte componente anticomunista e religiosa, prendono il sopravvento. L’esercito afghano si sfalda rapidamente tanto che nella primavera del 1979 le richieste di aiuto militare sovietico si intensificano, e si traducono inizialmente in poche unità di elicotteri o carri armati per poi trasformarsi in richieste di intere unità di combattimento per riuscire a mantenere il potere.
A Kabul, nel settembre 1979 Amin con un colpo di mano uccide Taraki e assume la carica di Capo di Stato. L’azione viene interpretata in maniera del tutto negativa dall’Unione Sovietica, la quale inizia a sospettare che l’instabilità del paese così come il cambio al potere sia un atto deliberato di Amin per minare il percorso comunista dell’Afghanistan, tanto da essere creduto persino una spia americana o di collaborare con i comunisti cinesi avversi a Mosca. Quando nel tardo 1979 Amin chiede che un contingente di soldati afghani venga dispiegato nei pressi della propria residenza e a difesa della base aerea di Bagram, i sovietici inviano qualche centinaio di soldati in uniformi afghane (soldati sovietici di etnia centro asiatica) per rimuovere Amin dal potere. Nella stessa base, in maniera non ufficiale ma ufficiosa, trova rifugio anche il leader della fazione Parcham, Karmal, individuato come successore di Amin alla guida dell’Afghanistan.
Mosca si ritrova coinvolta nella difficile questione della rimozione di Amin, che sta inesorabilmente trascinando il paese in una sanguinosa guerra civile dagli esiti non scontati. I documenti ufficiali rinvenuti negli anni seguenti alla guerra sembrano puntare verso vari tentativi fatti da Mosca per riuscire a rovesciare Amin utilizzando poche forze sovietiche già presenti all’interno del paese e scongiurare così un vero intervento militare; grandi unità sovietiche vengono comunque messe in stato di allerta e confluiscono verso i confini delle due nazioni. Qualsiasi tentativo di assassinare Amin e instaurare il moderato Karmal però fallisce e gli ordini di Mosca si fanno adesso più chiari grazie al prevalere dell’ala interventista all’interno delle sempre più numerose riunioni urgenti sovietiche. L’idea è quella di intervenire militarmente, con azioni rapide e veloci tali da assicurare il passaggio di potere e una prima fase di stabilizzazione del paese sotto i Parcham di Karmal.
L’Unione Sovietica non lo sa ancora, ma si è appena condannata a dieci lunghissimi anni di guerra che influiranno in maniera netta e decisiva sulle sorti del mondo e anche sulla propria dissoluzione, nel 1991. Nel prossimo articolo vedremo nel dettaglio i primi anni del sanguinoso intervento sovietico.