“Si può eliminare facilmente una vera dittatura, ma è difficilissimo eliminare una finta democrazia.” Le parole di Efisio Melis racchiudono l’essenza delle false democrazie.
Dittatura e democrazia sono politicamente agli antipodi fra loro, eppure la necessità tutta contemporanea di alcuni Stati di ammantarsi di democrazia per riscuotere consensi e facilitazioni internazionali genera non poche contraddizioni nel panorama politico internazionale. Alcuni di essi poi tengono particolarmente a sottolineare la loro matrice democratica, inserendola addirittura nella dicitura ufficiale dello Stato: è il caso della Repubblica Popolare Democratica di Corea (Corea del Nord) o della Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire), due Stati in cui il concetto di democrazia è travisato e piegato secondo l’utilità dei governanti.
Per appartenenza storica e prossimità geografica all’Europa, culla e antesignana della democrazia, la Russia di Vladimir Putin è tuttavia il caso più emblematico di deriva democratica.
Le elezioni del 2000 hanno sancito non solo la prima presidenza Putin, ma anche la fine di un progetto democratico russo durato appena 9 anni e mai messo in pratica veramente a causa dell’incapacità dell’allora presidente Borís Nikoláevič Elstin e del suo entourage, inadatti a traghettare l’economia e la società russa fuori dall’era sovietica.
Putin stravince le elezioni del 2000 con una percentuale di voti vicino al 53% frutto di una diffusa credibilità data dalla sua carriera prima nel KGB e poi nella politica russa, e ad un ampio sostegno alla sua campagna elettorale, incentrata sul risanamento sociale ed economico della società russa alla quale promette ordine e sicurezza.
Le prime azioni politiche di Putin da Presidente della Federazione Russa si concentrano principalmente su due fronti: la lotta agli oligarchi e la seconda guerra cecena.
Gli oligarchi russi, uomini d’affari e patron industriali dagli sconfinati patrimoni, si impongono nel panorama economico e politico russo negli anni Novanta del Novecento, sfruttando la caduta dell’Unione Sovietica e la conseguente ondata di privatizzazioni di diversi settori, in primis quelle energetico, che ha investito la Russia in quegli anni. Il carattere internazionale di queste figure, e la loro potente leva economica, hanno permesso loro di esercitare una vigorosa influenza sul debole comparto politico russo che in quel periodo governava il Paese, alimentando un sistema di corruzione finalizzato all’accrescimento del benessere di poche persone.
Di corruzione sono accusati in particolare Anatolij Čubajs e Egor Gajdar, due dei principali responsabili della privatizzazione russa nei primi anni Novanta che, secondo David Satter, noto giornalista americano, non ha generato un sistema basato su valori universali, ma piuttosto un sistema di proprietà privata che, in assenza di regolamentazioni legali, ha aperto un modo per la ricerca criminale di denaro e potere.
La paura principale che Putin nutre nei confronti di queste figure non riguarda la legalità dei loro affari, ma la trasposizione politica della loro forza economica, ovvero la possibilità che questi uomini hanno di influenzare e finanziare le forze politiche più congeniali ai loro interessi. I timori di Putin vengono riassunti e impersonificati nel 2003 da Mikhail Khodorkovsky, azionista di maggioranza dell’azienda petrolifera Yukos e uomo più ricco del Paese, che pare abbia avuto l’ardire di mirare alla destabilizzazione del Presidente Putin per spianarsi la strada verso la Presidenza in vista delle elezioni del 2008; la corsa di Khodorkovsky alla presidenza però finisce sulle desolate piste di un aeroporto siberiano dove ad attenderlo ci sono diverse pattuglie della polizia pronte per arrestarlo con l’accusa di frode fiscale, evento che causa nel 2005 la bancarotta dalla sua società Yukos, acquistata immediatamente dalla compagnia di Stato Rosneft.
Khodorkovsky viene condannato a nove anni di carcere di media sicurezza da scontare presso un penitenziario di Mosca, per poi essere trasferito presso il campo di lavoro “YaG-14/10” nella città di Krasnokamensk, un centro urbano a pochi chilometri da una miniera di uranio nell’estremo oriente russo, a causa della sua volontà di candidarsi al Parlamento attraverso l’applicazione di un cavillo burocratico.
La Duma (la Camera bassa del Parlamento Russo) nel 2013 ha approvato un provvedimento di amnistia nei confronti di Khodorkovsky che, non appena riacquistata la libertà, ha deciso di andarsene in esilio prima in Germania e poi a Londra, da dove prosegue a distanza la sua azione di supporto all’opposizione politica russa.
La seconda guerra cecena è il primo palcoscenico con riflettori internazionali sul quale si è esibita la politica di Vladimir Putin, dimostrando sin da subito una più che veemente intenzione di ripristinare nella totalità della regione caucasica la lealtà verso Mosca, annichilendo le spinte separatiste alimentate dai ribelli ceceni e da centinaia di guerrieri jihadisti giunti nella regione per supportare le cause dei ribelli ceceni di fede islamica.
L’esercito russo si impone sin da subito nell’area, riuscendo a conquistare ampie porzioni di territorio grazie all’avanzata del suo vastissimo esercito terrestre supportato dalle incursioni e dai bombardamenti dell’aviazione, e che conquista in breve tempo Gudermes, seconda città cecena per importanza e numero di abitanti. La presa di Grozny, capitale della Cecenia, da parte dei Russi è un trattato sulla tattica bellica del logoramento; la città viene sottoposta a continui bombardamenti per impedire approvvigionamenti di ogni tipo, e per distruggere strutture fondamentali come ospedali e uffici pubblici. La tattica russa funziona, e nella primavera del 2000 l’esercito russo riesce a conquistare la capitale della regione, stremata e dilaniata dalla scontro così come la popolazione civile locale: Grozny viene bombardata a tal punto che nel 2003 le Nazioni Unite la definiscono come “la città più devastata del mondo”.
La crudezza del conflitto attira l’interesse e lo sdegno di molti attori statali occidentali, preoccupati sopratutto delle velleità di riorganizzazione statale di Putin, ma anche per le violazioni dei diritti umani avvenute in entrambi gli schieramenti ai danni dei soldati ma anche dei civili. Proprio la violazione dei diritti umani nel corso della seconda guerra cecena è l’argomento principale del dossier giornalistico raccolto negli anni del conflitto dalla giornalista Anna Politkovskaja, penna russa pluripremiata per l’importanza dei suoi lavori di denuncia nei confronti di tutte le parti coinvolte nella guerra e nella violazione dei diritti umani.
Il suo lavoro la porta ben presto ad essere una giornalista di fama internazionale, tanto che le viene affidata la stesura del libro La Russia di Putin, Vita di una Democrazia Fallimentare, un racconto sull’ascesa al Cremlino da parte di Putin e sui metodi del FSB, il Servizio di sicurezza russo, usati per mantenere ed imporre un regime russo di stampo zarista, ovvero centralizzato e fortemente russificato.
Il 7 Ottobre del 2006 Anna Politkovskaja viene ritrovata morta nell’ascensore del suo palazzo insieme alla pistola che l’ha uccisa priva di tracce; il suo pc contenente tutte le informazioni raccolte dalla giornalista viene sequestrato dalla polizia russa per le indagini del caso.
Le indagini portano all’incarcerazione di due comuni criminali ceceni e di un funzionario del FSB, tutti scarcerati nel 2009 per insufficienza di prove in seguito alle sentenza del tribunale di primo grado russo; i famigliari della giornalista nel 2018 si sono rivolti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, depositando una sentenza di condanna nei confronti di Mosca per non aver condotto un’inchiesta efficace.
Criticità verso le azioni perpetrate dall’amministrazione Putin in Cecenia nel 2003 e nel 2014 in Crimea vengono espresse in più occasioni anche dal politico Boris Nemtsov, liberale e cofondatore del partito “Unione delle forze di destra”, da sempre avverso alle politiche anti-democratiche di Putin.
Viene arrestato per ben due volte, nel 2007 e nel 2010, per la sua partecipazione a manifestazioni non autorizzate anti-Putin e a favore dell’articolo 31 della Costituzione russa, che sancisce la libertà e il diritto a manifestare pacificamente. Negli ultimi mesi del 2014 rilascia queste parole al Corriere della Sera: “Mia madre è preoccupata. Lei veramente ha paura che Putin mi possa ammazzare per le mie iniziative…E non è uno scherzo. Mia madre è una persona intelligente”.
Il 27 febbraio 2015 viene assassinato a Mosca con diversi colpi d’arma da fuoco sul centralissimo ponte Bol’šoj Moskvoretsky, una zona sorvegliatissima a pochi passi dal Cremlino; al momento dell’omicidio tutte le telecamere di sicurezza della zona risultano spente per manutenzione. L’unico video dell’incidente proviene dalla videocamera dello studio TV Tsentr che, al momento dell’omicidio, viene bloccata da un veicolo municipale fermo. Il giorno dopo Nemtsov avrebbe guidato la marcia dell’opposizione Vesna, una manifestazione di strada organizzata per protestare contro le condizioni economiche in Russia e contro la guerra in Ucraina.
Anche il suo pc viene sequestrato per motivi investigativi dalla polizia russa.
L’impossibilità di opporsi liberamente in Russia traspare nitidamente anche dal recentissimo caso dell’avvocato moscovita Alexei Navalny, figura carismatica anti-Putin che ha fatto dell’opposizione e della denuncia al Cremlino il leitmotiv del suo seguitissimo blog. L’aumento esponenziale dei suoi sostenitori ha convinto l’avvocato russo a candidarsi alle elezioni come sindaco di Mosca nel 2013, nelle quali raggiunge un ottimo 27,24 % di voti che tuttavia non gli bastano per arrivare al ballottaggio con il candidato filo-putiniano Sergej Sobjanin, attestatosi al 51,37 % di voti. Il giorno seguente Navalny afferma che l’1,37 % che ha permesso a Sobjanin di evitare il ballottaggio proverebbe da “illecite risorse amministrative”; presenta immediatamente ricorso, ma il 20 settembre il tribunale della città di Mosca rifiuta di soddisfare le richieste di Navalny.
Navalny non cessa tuttavia di porsi criticamente nei confronti del Presidente russo e della sua amministrazione, nel 2014 infatti inizia sul suo blog un’aspra critica alle manovre russe in Crimea, dichiarando che queste porteranno solo ad una sofferenza economica in Russia e all’aumento delle zone d’influenza NATO nell’Europa orientale.
Nella primavera del 2020 la sua critica cambia oggetto ma non soggetto, infatti il bersaglio è sempre Putin, ma questa volta ad essere sotto la lente d’ingrandimento non sono azioni militari, ma azioni politiche; Navalny infatti afferma che il referendum costituzionale del 1 luglio voluto da Putin è in realtà un colpo di stato che porterà il presidente a ricoprire quella carica a vita.
La mattina del 20 agosto 2020 Navalny manifesta dei sintomi di malessere che lo portano al collasso durante un volo diretto da Tomsk a Mosca. Il pilota è costretto all’atterraggio d’emergenza per permettere ai soccorritori di intervenire e trasportare Navalny all’ospedale con la massima urgenza. Su richiesta della moglie, dei familiari e del partito “Russia del futuro” all’ex cancelliera tedesca Angela Merkel, Navalny viene trasportato con un volo tedesco presso una clinica medica di Berlino. Il 2 settembre un portavoce del governo tedesco conferma l’ipotesi di avvelenamento, affermando che le analisi su Navalny hanno riscontrato la presenza del Novichok, un agente nervino.
Nel gennaio del 2021 Navalny torna in Russia, dove viene prontamente arrestato in aeroporto e condotto in carcere con l’accusa di aver violato la condizionale del caso “Yves Rocher”, che lo vede imputato per frode.
Le sorti di Navalny, attualmente in carcere, sono tuttora incerte: basterà la cassa di risonanza internazionale che ha suscitato il suo caso a preservarlo dalla spada di Damocle che il Cremlino starebbe facendo oscillare sulla sua testa?
Purtroppo, in questo momento, di certo in Russia c’è solo Putin.