Intuire, prevedere e fronteggiare le strategie geopolitiche e le tattiche belliche di Mosca non è mai stato facile per i suoi avversari.
Da Napoleone e la sua Grand Armeè, al generale della Wehrmacht Hermann Hoth, fino alla NASA e al suo programma spaziale, in molti sono stati sorpresi dalle tattiche russe adottate nelle più varie occasioni. Intuire le mosse di Vladimir Putin è poi cosa ancor più complessa.
L’oligarca russo è un leader politico anacronistico rispetto ai suoi colleghi del G20 (paesi più industrializzati), capace di concentrare talmente tanto potere su di sé da arrivare ad incarnare in maniera assolutista il potere stesso di una nazione: non è la Russia con Putin, è la Russia di Putin.
Da quando è stato eletto per la prima volta come Presidente della Federazione Russa nel 2000 Putin ha sempre operato politicamente per rafforzare il suo potere presidenziale con lo scopo di avere ampio margine per ridimensionare l’immagine e la forza del suo paese.
Nel settembre 2004 ad esempio il Presidente russo ha varato una legge che gli permetteva, e gli permette, di scegliere direttamente i governatori regionali, decisione che ha suscitato le proteste dell’ex presidente sovietico Gorbačëv, che ha criticato tali provvedimenti accusando Putin di allontanarsi dalla via democratica.
Non è un segreto che Putin ambisca ad una Russia zarista o al massimo post-leninista, quindi uno Stato forte e nazionalista, con un potere altamente centralizzato capace di far valere tutto il suo peso in politica estera, non incline al compromesso e desideroso di egemonia. La concezione politica della Russia di Putin dunque non collima con la visione internazionalista di Lenin e Trockij, entrambi fautori di una Russia governata da un partito strettamente legato al proletariato e ai suoi interessi, e dalla forte connotazione internazionale.
In una recente intervista lo stesso Putin ha confermato questa sua distanza politica dallo storico leader bolscevico, additandolo come uno dei principali responsabili della crisi attuale, data la creazione nel 1922 della Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina, atto che secondo l’attuale leader russo ha contribuito a generare un falso quanto fastidioso nazionalismo nella popolazione ucraina.
La guerra ormai imperversa da diversi giorni in Ucraina e l’esercito russo sembra inarrestabile nella conquista dei suoi obiettivi, nonostante una speranzosa e partigiana resistenza delle forze militari e civili ucraine che stanno trasformando quella che doveva essere una guerra lampo in una serie di guerriglie urbane, come nel caso di Kharkiv, le cui strade in questo momento non ospitano nulla sennonché corpi, proiettili e orrore.
L’obiettivo principale è ovviamente l’appropriazione di uno spazio cuscinetto fra gli attuali territori russi e la zona d’influenza militare della NATO, in particolare nell’area del Mar Nero e del Mare d’Azov. Per questo motivo l’esercito russo sta con insistenza attaccando l’area di Mariupol, città portuale che mette in collegamento le repubbliche separatiste di Doneck e Lugansk con la Crimea, e Odessa, uno dei porti principali del Mar Nero, sede della Marina Militare ucraina e strategicamente vicina alla base NATO di Costanza in Romania.
Oltre alla conquista di uno spazio di sicurezza Putin sta puntando ad una frammentazione dei legami interni fra i singoli Stati che compongono l’UE, dati i diversi rapporti economico-commerciali che intrattiene con ognuno di essi, e ad una dissoluzione dei rapporti di potere fra USA e UE, e quindi, indirettamente, della NATO.
La situazione, date le condizioni attuali, può prendere tre differenti strade.
Nella prima ipotesi Putin arresterà la sua macchina bellica non appena avrà raggiunto i suoi principali obiettivi strategici, accettando di presiedere ad un tavolo delle trattative in cui non avrà nulla da perdere perché non avrà più nulla da chiedere, essendosi assicurato prestigio militare, postazioni e territori desiderati.
Questo scenario è il più probabile in quanto si verificherebbe nuovamente la situazione già accaduta in Crimea nel 2014 e in Abcasia e nell’Ossezia del Sud nel 2008, ovvero una conquista territoriale russa che allarma in un primo momento le potenze occidentali, salvo poi affievolirsi, dopo essere stata ultimata, sotto i colpi della necessità energetica.
Il secondo scenario si configurerebbe come una situazione di stallo prolungato, ovvero una condizione nella quale la Russia e l’Ucraina, sostenuta dagli approvvigionamenti della NATO e dell’UE, si scontrano continuamente per la conquista di porzioni di terra dal basso valore strategico ma dall’alto valore simbolico, finché uno dei due blocchi non cede sotto il logoramento prolungato della guerra e delle sanzioni.
Ovviamente questo scenario si verificherebbe soltanto nel caso in cui ci sia una forte volontà e capacità dei leader occidentali di trovare una soluzione alla crisi energetica innescata dal conflitto tale da poter rinunciare ai preziosi asset russi. Infatti le sanzioni economiche applicate in questi giorni dall’UE e da altri Paesi nei confronti della Russia sembrano non aver preoccupato il Presidente russo, fiducioso nella sua strategie di accantonamento di riserve auree e di valuta estera utili a contrastare l’inflazione; di contro la chiusura dei rubinetti di gas russo sembra aver impensierito, e di molto, i leader europei.
Il terzo scenario va citato per onestà intellettuale, ma sarebbe una sconfitta della diplomazia internazionale tale da riportarci indietro di un secolo, ovvero al periodo in cui la diplomazia consisteva principalmente nella guerra aperta. La Russia continuerebbe la sua opera bellica finché non avrebbe la garanzia che l’Ucraina non entrerà mai né nella NATO né nell’UE, garanzia che per una questione di mantenimento di un certo ordine mondiale l’Occidente non sarebbe disposto a dargli. L’Ucraina inizierebbe a cedere militarmente, data la potenza dell’esercito russo sul lungo periodo, e un intervento militare della NATO sarebbe inevitabile per contrastare l’avanzata russa verso ovest: sarebbe effettivamente una Terza Guerra Mondiale.
Non c’è una soluzione univoca ne tantomeno un libretto d’istruzioni per uscire da questa situazione, ma con dodicimila testate nucleari in gioco sarebbe il caso di seguire solo il buon senso.