Parlarvi di questo lavoro mi mette a disagio per il timore di non riuscire a descrivere questa che è la bibbia del progressive metal.
Articolo pubblicato per la prima volta il 16/10/2000
Images And Words è, per chiunque non conosca questo filone del metal, un “must” assoluto e, per chiunque fosse già avvezzo a questo sound, un album che non può mancare della propria collezione.
In questo disco i Dream Theater hanno dimostrato che quelli che fanno metal non sono dei “picchiatori di strumenti” ma dei veri e propri musicisti con una padronanza del proprio mezzo tale da permettere di eseguire pezzi di una difficoltà assurda, a una velocità e con una coordinazione corale che fa dubitare, almeno finché non li si ascolta dal vivo, che delle persone possano suonare così. Come dicevo, siamo di fronte ad un punto fermo di uno stile che, nato negli ultimi 10-15 anni, rappresenta la parte più tecnicamente complessa del genere da cui deriva; eppure le canzoni presentate sono, quasi tutte, assolutamente godibili anche per un orecchio non estremamente sensibile. Canzoni come Another Day e Surrounded sembrano accarezzare i timpani mentre Wait For Sleep potrebbe tranquillamente rappresentare il singolo di punta di un album “soft” rock.
Si sente subito che qualcosa è cambiato nel sound a cui siamo avvezzi e che la voce quasi lirica di La Brie in parte stona con le voci irose e amare dei nostri idoli. Eppure, come mai non riusciamo a muoverci? Perché mai il bassone a sei corde di Myung (l’unico orientale truzzo che abbia mai visto) non ci sembra troppo raffinato e la Ibanez di Petrucci, accompagnata dalla tastiera di Moore, graffia meno di altre vecchie conoscenze ma ci sembra ancor più evocativa? Perché, signori, questo è il metal che non vi siete mai aspettati, melodico e dolce, brillante e positivo. I suddetti artisti sono fra quanto di meglio si possa trovare in giro tecnicamente parlando sia individualmente che in gruppo.
In particolare il signor Petrucci viene di solito messo a confronto con gente come Yngwie Malmsteen o Steve Vai senza che ne risulti sminuito. Anzi, c’è poi colui il quale, secondo me, rappresenta il vero quid del nuovo genere, lui, il solo, il mitico: Mike Portnoy. Sinceramente ancora non ero sicuro sapesse suonare la batteria la prima volta che l’ho ascoltato… poi qualcosa si è mosso dentro di me e l’assurdo preconcetto per cui vedevo la batteria come uno strumento di accompagnamento, si è disintegrato e mi sono trovato davanti a uno strumento nuovo, capace di essere ispiratore e addirittura solista di interi brani!
Ma i veri pezzi che rappresentano l’essenza del progressive sono Pull Me Under, Take The Time (e non è un gioco di parole: cercate di stare dietro a Portnoy mentre continua a cambiare tempo usando battute dispari!), Metropolis – Part I, un vero capolavoro che è stato ripreso nell’ultimo lavoro del gruppo (Metropolis Pt. 2: Scenes From A Memory) e l’ultima traccia Learning To Live che chiude, ponendo un sigillo meraviglioso e definitivo per questo album storico che è il manifesto di un genere che si pone come un bastione fra il metal e tutti quelli che continuano a denigrare ciò che non conoscono.