Il tanto elogiato pacchetto legislativo richiesto dall’UE che mira a riformare la giustizia manca di quello di cui abbiamo veramente bisogno: la certezza della pena.
Chiunque non viva sotto un fungo, conosce benissimo (o perlomeno bene) i problemi legati al mondo dei processi in Italia. Tempi biblici, specialmente per i processi civili, con continui rinvii che portano le cause a durare lustri se non decenni; e nel frattempo chi ha subito un torto continua a vivere le sue afflizioni, mentre chi ha abusato del prossimo continua a vivere relativamente tranquillo.
La riforma Cartabia, richiesta dall’Unione Europea in funzione Next Generation EU, varata in pompa magna sotto l’esecutivo Draghi e glorificata su quasi tutti i fronti politici e giornalistici, non ha mai voluto risolvere il problema principale della giustizia italiana: quello che le condanne, quando presenti, sono miti ed assolutamente inadatte a punire degnamente i colpevoli.
L’Italia, come il resto dei paesi occidentali ma molto più di loro, ha vissuto a partire dagli anni ’70 un progressivo e vorticoso declino delle strutture giudiziarie, per motivi legati principalmente a tentativi di destabilizzazione dello Stato e della società. A questi si sono aggiunti gli aspetti legati alla corruzione, che dagli anni ’80 in poi hanno preso il sopravvento di una larga fetta della classe politica; il risultato è che oggi abbiamo tribunali sottodimensionati e dagli iter farraginosi, strutture penitenziarie fin troppo morbide, leggi che sembrano tutelare principalmente i criminali e un apparato di Pubblica Sicurezza sotto organico, mal pagato e privato di quella autorità che meriterebbe.
La riforma Cartabia ha puntato tutto sull’accelerare i tempi dei processi, ma lo ha fatto esclusivamente dal punto di vista della norma: certamente eliminando la prescrizione dopo la sentenza di primo grado ma imponendo una durata totale del processo, pena la sua decadenza e quindi la condannabilità dell’imputato, del tutto artificiale; e questo è un grosso problema, perché non mette mano alla reale questione della mancanza di organico nei tribunali. Il risultato sarà che molti rei diventeranno semplicemente incondannabili, e se i processi dureranno di meno sarà al prezzo di lasciare che i reati restino impuniti.
L’unica azione che porterebbe al risultato della velocizzazione dei processi è quella di restaurare una certezza della pena che manca dalle riforme degli anni ’70. Pene dure, da scontare in carceri pensate per far passare la voglia di tornarci invece che strutturate come soggiorni dove imparare un mestiere (quando capita) sarebbero il vero deterrente a commettere reati di qualsiasi sorta. Questo produrrebbe quindi un effetto domino: mettere i colpevoli in carcere, o costringere i condannati a pagare sanzioni pesantissime, significherebbe avere meno tentativi di commettere reati, e di conseguenza un progressivo svuotamento di faldoni dai tribunali.
È un’equazione tanto ovvia quanto scomoda ed invisa sia dai poteri politici, che spesso hanno fin troppi intrecci con attività non certo pulite, sia ai fanatici delle ideologie progressiste che ci hanno portato allo sfacelo sociale in cui viviamo; eppure sarebbe una soluzione semplice e permanente sia per abbattere i tassi di criminalità che per assicurare una giustizia veloce ed efficente.
C’è un altro elemento importante da considerare: l’informatizzazione dei tribunali procede troppo a rilento. Ancora oggi esistono montagne di faldoni che raccolgono informazioni cartacee che nemmeno le necessità legate alla pandemia di Covid sono riuscite ad intaccare. Se per le vecchie pratiche è comprensibile, anche se non condivisibile, un approccio legato al progressivo oblio (informatizzare tutto lo storico è effettivamente un’operazione mastodontica che richiede un costo immane, anche se una tantum), non esiste nessuna giustificazione affinché ogni singola causa, processo o atto giudiziario non sia già oggi processato in un sistema centralizzato ed in grado di dialogare su base nazionale in tempo reale. In tal senso la riforma Cartabia prevede delle disposizioni precise, ma bisogna stare a vedere quando e come verranno attuate.
La speranza è che in Parlamento il nuovo governo prenda sul serio la tematica della giustizia ed apporti i giusti cambiamenti necessari al buon vivere: a partire dalla rimozione dell’assurdo limite che non prevede alcun giorno di carcere per chi è condannato a pene inferiori ai quattro anni. Chi sbaglia paga e deve essere punito severamente: esattamente l’opposto di quanto previsto dalla riforma Cartabia, che vuole sostituire il carcere con la detenzione domiciliare, la semilibertà, i lavori di pubblica utilità e l’introduzione delle cauzioni e delle pene pecuniarie.
D’altronde questa riforma, così formulata, ce la chiede l’Unione Europea: alla faccia della giustizia e del rispetto dei cittadini onesti.