Con la scissione del 21 Giugno, quanto resta del M5S rischia di essere un vuoto contenitore a metà fra ideologie radicali ed incapacità di dialogo.
Questo articolo, preparato un paio di giorni fa, doveva uscire il 22 mattina. Parlava della possibile scissione fra i radicali M5S e gli esuli capeggiati da Di Maio. Come spesso accade gli avvenimenti sono più rapidi delle analisi politiche, ed un aggiustamento in corsa è necessario.
È successo: Di Maio ha lasciato il Movimento 5 Stelle, quel movimento che gli ha dato notorietà in campo politico, ma che ha anche beneficiato della sua crescita personale. È stato un rapporto simbiotico, ma non poteva durare dopo l’arrivo di Giuseppe Conte. L’avvocato foggiano ha sposato la causa dei grillini più radicali e ha strappato il controllo del Movimento a chi lo ha plasmato negli anni, indicando gli obiettivi da seguire.
Dal 2018 ad oggi il Movimento 5 Stelle ha intrapreso una strada che sembra portarlo all’autodistruzione: dopo le elezioni politiche che lo hanno visto raggiungere circa il 35% delle preferenze e la formazioni di un governo con la Lega, le gerarchie interne si sono man mano disintegrate; e dopo la morte di Casaleggio padre e la contemporanea inarrestabile perdita di consensi, le sue componenti hanno denotato sempre più una mancanza di convergenza, dimostrando quanto il M5S raccogliesse al suo interno anime completamente diverse.
Dopo le innumerevoli espulsioni e gli allontanamenti volontari dei transfughi parlamentari (chi per motivi politici e chi per convenienza), dopo i costanti ribaltoni che hanno portato i 5 Stelle a governare con chiunque, calpestando quei “mai con Berlusconi” e “mai col partito di Bibbiano” che erano stati i loro cavalli di battaglia, la credibilità dei grillini oggi è a zero ed i sondaggi elettorali lo testimoniano: a votare il M5S sarebbero solo gli iscritti e chi prende il reddito di cittadinanza (e nemmeno tutti).
Il Movimento 5 Stelle sta scontando tutte le rigidità e le ipocrisie che ne hanno minato il cammino fin dalla prima ora. Se ogni voce di dissenso ed ogni pensiero differente merita l’allontanamento, evidentemente la radice del movimento è totalitaria, assolutista e dittatoriale. Se elementi come Di Maio sono costretti a fondare nuove aggregazioni, altri come Di Battista sono costretti ad un esilio volontario, e tutte le menti pensanti e migliori si sono allontanate, confluendo in altri partiti o nel gruppo misto, ci si rende conto di come il M5S sia, nella migliore delle ipotesi, un luogo di estremismo e ostilità. Forse, però, in certi casi si è voluto estromettere chi nella prima ora era animato da alti ideali di rinnovamento nazionale solo per poter esercitare il controllo sulla struttura interna del movimento ed essere sponda diretta di forze politiche straniere; non è certo casuale che ancora oggi non sia arrivata una netta posizione contro la Russia e pro Ucraina da parte di Conte e del Movimento, gli stessi che hanno steso tappeti rossi a Putin e Cina.
Dopo l’ultima tornata amministrativa, il Movimento 5 Stelle è uscito con le ossa rotte ed i sondaggi sulle elezioni politiche lo danno sotto il 13%. Con questa scissione, il M5S cessa di essere un determinante ago della bilancia in parlamento, dividendosi in un’ala radicale ed ingestibile ed un’altra più centrista ed aperta al dialogo. Di Maio ha dimostrato negli anni di esser cresciuto e di essere un vero politico; e questo forse è il suo peccato più grande per la base degli iscritti del suo ex-partito. Di Maio potrebbe andare ad intercettare tutti quegli elettori moderati che hanno votato 5 Stelle sperando in un cambiamento ma che, delusi, sono confluiti in altre formazioni o hanno semplicemente deciso di disertare le urne in questi ultimi anni. Il M5S invece ha già raggiunto il suo massimo potenziale, e sarà interessante vedere quanti voti perderà dopo la scissione (probabilmente pochi, ma contano le percentuali).
Le due componenti saranno relegate a ruoli marginali in future coalizioni (ma ve lo ricordate Grillo quando strepitava “non ci alleiamo con nessuno”?), ma perlomeno è terminata quella faida interna che ha costantemente scosso la macro-maggioranza del governo Draghi, tenuto in piedi con lo scotch pur di arrivare a vedere i soldi del PNRR promessi dall’Unione Europea e, soprattutto, pur di permettere ai previlegiati della politica (inclusi gli eletti 5 Stelle) di concludere la legislatura assicurandosi la pensione da parlamentari.