La Principessa Mononoke: la recensione

La storia è ambientata in un medioevo giapponese fantastico dove si ripropone il leitmotiv tipico dello Studio Ghibli: se la natura viene offesa, si vendica.

 

 

Articolo originariamente pubblicato il 20/06/2000.

 

Purtroppo, l’impressione che ebbi di questo film vedendolo in giapponese oltre un anno fa rimane inalterata ora che è distribuito in tradotto: una pellicola spettacolare per oltre centoquindici dei suoi centoventi minuti, e disastrosa negli ultimi, fondamentali cinque.

La storia è ambientata in un medioevo giapponese fantastico ma verosimigliante; narra di un giovane nobile, Ashitaka, che per salvare il suo villaggio dall’attacco di un demone-cinghiale viene infettato dalla maledizione demoniaca dell’odio ed è costretto a partire per l’occidente, dove, forse, potrà comprendere l’origine del morbo che lo ha condannato. In occidente si imbatte in una città-fonderia, nella quale una nobildonna, Oboshi, fa produrre raffinate armi da fuoco. La città è edificata ed alimentata a spese delle foreste che la circondano.

La causa di tutto è lì: gli spiriti animali che vivono nella selva attaccano la città ed è uno di essi, colpito a morte da un proiettile, che si trasforma in demone per il dolore e l’odio, causando così l’infezione di Ashitaka. Si ripropone quindi il leitmotiv tipico dello Studio Ghibli: se la natura viene offesa, si vendica. Nerbo di questa vendetta è una ragazza selvaggia, San, la principessa Mononoke, che è stata allevata da giganteschi lupi che abitano la selva, e che è risoluta ad uccidere Oboshi che comanda la Città del Ferro. Parallela a questa lotta si insinua la ricerca della verità del giovane Ashitaka e la caccia spietata portata da un monaco mercenario, Jiro, alla testa del Dio della Foresta (Kami, in giapponese, più che un vero e proprio dio, è assimilabile ad uno spirito tutelare simile a quelli che avevano gli Antichi Romani), un cervo dal volto umano.

 

 

L’ Imperatore in persona vuole il magico trofeo perché sembra che esso possa donare l’immortalità. Ashitaka stesso, pur dotato di forza prodigiosa dalla malattia che lo sta uccidendo, viene ferito tentando di evitare alla bella San di essere massacrata dai sudditi di Oboshi, e si salva solo grazie all’intervento del Dio della Foresta, invocato dalla ragazza. Ovviamente egli si innamora di lei.

Nella foresta intanto l’Armata dei Cinghiali si raduna per tentare un ultimo assalto suicida contro la Città del Ferro, contro il parere dei Lupi e di San, andando a finire in una trappola disposta dal monaco Jiro e da Oboshi, entrambi ansiosi, il primo di avere la testa del dio, la seconda di poter finalmente domare la foresta che si oppone alle sue miniere e fonderie.

Oboshi è tanto presa da questa sua personale lotta contro la selva da non curarsi dell’assedio che stringe la sua città, portato da un daimyô (nobile feudale) suo rivale. È un massacro: tutti i cinghiali vengono sterminati con l’uso della polvere da sparo, e si salva solo il loro capo, il vegliardo Okoto. Ferito mortalmente, questi, San ed uno dei due lupi “fratelli” della ragazza fuggendo conducono involontariamente la banda dei cacciatori proprio al cuore della foresta, dove finalmente riescono a spaccare la testa al mite dio-cervo.

Inizia così una terribile trasformazione del corpo del dio, che, cieco, tenta di riprendersi la sua testa, devastando e uccidendo ovunque giunga il suo tocco mortifero. Vana è la fuga di molti dei mercenari, Oboshi stessa perde un braccio per catturare la testa del dio. San e Ashitaka comprendono che l’unica speranza è di restituire al dio ciò di cui è stato privato, così inseguono il monaco, lo battono e rendono la testa al Dio-cervo. Egli placa la sua ira, accascia il suo immenso e diafano corpo sul lago dove, morendo, ridà vita alla foresta, e guarisce le piaghe di Ashitaka.

 

 

E qui inizia lo squallido finale alla “volemose bene” che tanto rovina un così bel film: la Città del Ferro verrà ricostruita secondo un rigoroso progetto di sviluppo sostenibile, il monaco mercenario Jiro mostra un’eccezionale sportività nell’ammettere la sconfitta.

Lupi e stambecchi che vivono insieme e i due piccioncini San e Ashitaka che decidono di vivere come casti vicini di casa, perché un rapporto sentimentale sarebbe troppo ingombrante. E tante, tante frescacce sulla sacralità della natura e della foresta (senza dubbio concetti notissimi durante il medioevo giapponese).

Le animazioni sono incredibilmente particolareggiate, colori e fondali spettacolari. Bella anche la colonna sonora (anche se alcuni brani lasciano un sapore di già sentito). Spasmodica, rimarchevole, a mio avviso, la ricerca simbolica nelle immagini e nelle musiche, che rende alcune scene degne di essere considerate vere opere d’arte. Più di una volta ho avuto i brividi nella schiena, osservando la bellezza e la raffinatezza simbolica di alcune sequenze. Perfetta la regia e la sceneggiatura. Peccato per la terrificante caduta di stile del finale.

Nota di biasimo per il titolo in inglese: se volevo un titolo straniero, lasciavo quello giapponese.

Un voto? 9 i primi centoquindici minuti, 2 per gli ultimi cinque. Media: 5,5.

 

La Principessa Mononoke, 1997
Voto: 5.5
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