Non è facile inquadrare Sanctuary perché somma in sé tutta una serie di generi che di solito vivono parallelamente e difficilmente s’intrecciano.
Nel vasto panorama del fumetto giapponese non sempre ci si imbatte in storie di robottoni pseudo – fantascientifici: capita anche di trovarsi di fronte ad opere originali non soltanto nei contenuti, ma anche nelle forme espressive. Sanctuary si potrebbe definire una gangster story, se non fosse che si tratta di Yakuza; si potrebbe definire una storia di potere, se non fosse che il politico in questione è un giovane scampato alle persecuzioni di Pol Pot in Cambogia; si potrebbe definire un fumetto hard boiler, perché ci sono situazioni scabrose, ma vi troverete anche di fronte a situazioni molto giapponesi. In realtà, non è facile inquadrare Sanctuary in un genere preciso e, diciamocelo, neanche mi va a genio questa mania tassonomica da piccolo naturalista.
Quel che possiamo dire senza ombra di dubbio, è che Sanctuary è un’opera matura e completa di un grande autore, Sho Fumimura che altri non è che quel Buron Son, già sceneggiatore di Hokuto No Ken, affidata alle chine di un maestro del fumetto giapponese: Ryoichi Ikegami. Questo disegnatore, spesso sgradito al pubblico nostrano per il suo tratto assai poco giapponese (niente occhini, niente linee e riempimenti, fisionomie assolutamente realistiche), ha, negli anni, prodotto una vasta serie di lavori, alcuni dei quali pregevolissimi. Che abbia un debole per le storie di malavita è noto: molti ricorderanno il suo Crying Freeman, dal quale è stato tratto un film dal vivo; altri ricorderanno anche la sua passione per le opere a sfondo storico, spesso ambientate all’epoca dei Samurai.
Sanctuary, il Santuario, è una parola emblematica, idonea a far da titolo alla storia dell’ascesa al potere dei due protagonisti. Akira Hojo e Chiaki Asami, scampati in tenera età alla persecuzione di Pol Pot (i loro genitori lavoravano in Cambogia al tempo della rivoluzione), decidono di percorrere due cammini simili, ma paralleli.
La sorte vuole che ad Hojo tocchi la via delle ombre, egli diventerà uno yakuza, mentre ad Asami spetti la via della luce, egli diventerà un politico. Ma mai come in questo caso i nomi non sono che apparenze: spesso, molto spesso, politica e mafia si incontrano, per non dire che vivono contigui. Bisogna dire che la mafia giapponese è molto peculiare, ma dovremmo scrivere un articolo a proposito e forse lo faremo. In questa sede basti sapere che la Yakuza è regolata in modo gerarchico, per l’aspetto personale, ed in modo imprenditoriale, per l’aspetto delle attività illecite. Queste sono sempre coperte da attività apparentemente lecite: club, locali notturni, società finanziarie, banche.
Chiusa questa piccola parentesi, occorre spiegare il motivo che spinge i due giovani a gettarsi a capofitto in una corsa ambiziosa e inarrestabile verso il Santuario: Hojo e Asami vogliono rovesciare il Giappone “come un calzino”. Vogliono spodestare i vecchi gufi del potere: vecchi politici, che conservano con gli scandali e la corruzione i propri serbatoi elettorali, vecchi boss mafiosi, che conservano con l’inganno e con il sangue, i propri domini criminali.
L’accostamento fra crimine e politica non è casuale, come non lo è la critica ad un sistema incentrato sul “potere di Matusalemme”, di cento, mille mummie che schiacciano con le loro trame la forza giovane di un paese prospero, ma imbelle.
È evidente l’intento di elaborare una critica allo stato delle cose (relativamente all’epoca del fumetto, la metà degli anni ‘80), al giogo dei vecchi sul futuro del Giappone. In effetti, se scorreste l’annuario dei parlamentari giapponesi, notereste che moltissimi hanno superato i settant’anni (anche oggi). Insomma, se critica al sistema deve essere, meglio se la si espone attraverso una bella storia. Sanctuary è così: avvincente, violento, umano.