L’origine della Spagnola non è da ritrovarsi in Spagna. Quale fu dunque il motivo di tale denominazione? Quali furono le difficoltà di diagnosi?
Nascita di un nome
Nell’articolo precedente abbiamo trattato della diffusione del virus, scoprendo che, a differenza dI quanto suggerisce il nome, non ha avuto origine in Spagna. Perché dunque venne chiamata “Spagnola”?
Nel 1918 la malattia si diffuse così velocemente che fu percepita come globale, non come locale. Inoltre nelle varie zone del pianeta esistevano concezioni sorprendentemente diverse delle malattie. Dal punto di vista medico questa viene infatti considerata come assenza di salute. Tuttavia a seconda della qualità della vita a cui siamo abituati anche il concetto di “assenza di salute” varia molto; il riconoscere vari sintomi è dunque un procedimento essenzialmente diversificato nelle varie regioni del pianeta. In una metropoli moderna come Washington la percezione è diversa rispetto a quella di una tribù aborigena del Pacifico o a una comunità ancora medievale nelle sperdute montagne Cinesi.
A questo fattore va aggiunto che il mondo era ormai in guerra da anni, le risorse erano tutte concentrate al fronte, il cibo spesso scarseggiava, e una epidemia era un buon modo per incolpare un paese nemico; per questo motivo questo virus ebbe decine di nomi diversi. Quando in Maggio l’influenza arrivò in Spagna si ritenne che giungesse da fuori, e a ragion veduta: era da due mesi che il virus si diffondeva in America e da qualche settimana in Francia. Tuttavia gli spagnoli non sapevano che nei paesi belligeranti, a differenza del loro, le notizie venivano filtrate e censurate per non demoralizzare la popolazione. Fu così che i giornali riportarono liberamente il passaggio della malattia (dagli spagnoli chiamata “il soldato napoletano”, motivetto contenuto in una famoso spettacolo del tempo), e queste notizie giunsero negli altri paesi, indicando la malattia come “influenza spagnola”. Curiosamente questa definizione non compare mai negli scritti spagnoli del tempo.
Tra i nomi che fiorirono lontano dalle zone del fronte, e che rispondono delle antipatie nazionali locali, troviamo in Senegal “l’influenza brasiliana”, in Brasile “l’influenza tedesca”, i polacchi la chiamarono “malattia bolscevica” e i persiani diedero la colpa ai britannici. I giapponesi se la presero con i lottatori soprannominandola “malattia del sumo”, perchè uno dei primi focolai nacque ad un incontro della medesima pratica.
La sfida per i medici: la diagnosi
Ora che abbiamo descritto la genesi del nome, cerchiamo di capire cosa si intendeva con il termine influenza nel 1918.
La tesi più avanzata al tempo può essere riassunta da Laura Spinney come: “un insieme di sintomi comprendenti tosse, febbre e dolori diffusi provocati da un batterio che aveva preso il nome dal suo scopritore, Richard Pfeiffer”. Ora, un medico rigoroso, qualora un paziente fosse arrivato lamentando i sintomi, avrebbe dovuto prendere un campione di saliva, mettere a coltura i batteri e poi osservarli con il microscopio; se avesse visto il bacillo di Pfeiffer la questione della diagnosi sarebbe stata risolta. Il problema era che il bacillo di Pfeiffer non provoca l’influenza. Difatti l’influenza è provocata da un virus, e questo è troppo piccolo per essere osservato dai microscopi del tempo. Il bacillo di Pfeiffer risiede in gola, ma già al tempo non si poteva riscontrare in tutti i pazienti affetti dai sintomi.
Dunque dopo la prima ondata che fu scambiata per una semplice febbre, alla seconda, decisamente più letale e devastante, si iniziò a pensare alla peste (in Europa e in America), nei paesi caldi pensarono al dengue, e venne intesa anche per colera, tifo. Ci furono anche diagnosi più curiose, come quella dell’irlandese Kathleen Lynn, la quale sosteneva fosse provocata dai vapori nocivi che si alzavano dai cadaveri nei campi di battaglia,trasportati poi dai venti. Altri invece pensarono ad un’arma biologica, dato il conflitto mondiale.