La certezza della pena è il mattone fondativo di ogni società; è impensabile voler risolvere vent’anni di immobilismo cedendo agli atti di forza dei detenuti.
C’è un errore di fondo nel modo in cui una parte dell’opinione pubblica italiana affronta il tema della pena: se si finisce in carcere a seguito di una condanna passata in giudicato, vuol dire che si è commesso qualche reato. Se possiamo essere d’accordo che ci sono tipi di reato diversi e di diversa gravità (così come ci possono essere una bassissima percentuale di persone finite dietro le sbarre pur essendo innocenti), e che quindi ci possono essere diversi tipi di pena e di detenzione, non si può al tempo stesso negare che l’unico modo per far capire a chi delinque e a chi vorrebbe delinquere che no, il crimine non paga, e che se si viene pizzicati la si sconterà, possibilmente malissimo. Si tratta di un concetto semplice, ma che sembra essere ormai dimenticato: ti punisco duramente perchè hai fatto qualcosa che non dovevi fare, ma soprattutto scoraggio chi vorrebbe compiere la stessa azione a proseguire nel suo intento.
Nel nostro Paese viviamo una situazione di debolezza sociale e di desiderata anarchia, figlia di quel dannato ’68 e dei successivi anni che hanno minato forse irrimediabilmente la solidità della società italiana.
Sono decenni che non si mette mano al problema carcerario, tralasciando la costruzione di nuove strutture o ancor peggio applicando indulti e modificando le leggi per rendere progressivamente sempre più impossibile l’incarcerazione. Oggi, fatte salve alcune specifiche situazioni, in galera non si va a meno di avere una condanna di almeno cinque anni (grazie, governo Renzi); e condanne inferiori non si cumulano, nemmeno se si reitera il reato, nemmeno se si viene colti in flagrante.
I messaggi di delegittimazione della Polizia Penitenziaria inviati in questi mesi, con continui attacchi agli agenti lasciati soli a gestire l’ingestibile, con condanne inflitte a chi deve farsi rispettare dai criminali con le buone o con le cattive mostrano un Paese che ha smarrito la strada e sembra puntare all’autodistruzione.
Se la soluzione definitiva è quella di costruire nuovi carceri, anche di massima sicurezza, e recuperarne altri abbandonati come quello dell’Asinara, nonchè assumere un maggior numero di agenti di Polizia Penitenziaria e soprattutto fornir loro maggiori strumenti per imporre ai detenuti ferree regole, si tratta di misure che non possono essere attuate in pochi mesi. L’immediato richiede l’uso della forza senza mezzi termini e senza remore. Agli agenti va garantita una anonimità oggi inesistente, cosa che mette in pericolo loro e le loro famiglie già ora, nel loro lavoro quotidiano; e, al contempo, se ci sono troppi criminali per la capacità delle attuali strutture carcerarie, beh, problema loro: si stringeranno nelle celle e se necessario dormiranno per terra o in piedi.
La soluzione ventilata da Nordio (riportare i carcerati nei loro paesi di provenienza e far uscire quelli legati a reati di droga) è ridicola e inapplicabile: oltre a essere stato finora impossibile riportare a casa loro chi viene in Italia per delinquere, far uscire dalle galere chi si macchia di reati legati al possesso e allo spaccio di stupefacenti è un messaggio terribile, contemporaneamente di debolezza e di decadenza dello Stato. Basta indulti, basta svuotacarceri: questo governo è stato scelto per imporre ordine e legge, e fa specie doverlo ricordare.
La giustizia e l’applicazione delle leggi non deve essere una barzelletta, come invece pensa chi vorrebbe vivere in uno Stato privo di regole. Tutti vorrebbero avere un sistema bilanciato e privo di eccessi, ma se in Italia si è giunti ad una situazione come quella che vediamo oggi grazie al (doloso?) lassismo di vent’anni di governi di centro-sinistra, la reazione e le contromisure devono essere chiare e forti. Anzi: fortissime.