Covid e prevenzione: due anni buttati

Vaccini, mascherine e green pass sono misure antipandemiche utili ma esclusivamente reattive. Quali migliorie infrastrutturali a lungo termine avrebbero potuto essere implementate stabilmente nel frattempo?

 

 

Fra le tante cose che la crisi legata al Covid ci ha sbattuto in faccia è stata l’evidente inadeguatezza dell’intera nostra classe politica… come se non lo sapessimo già. In questi 24 mesi di pandemia si è pensato esclusivamente a discutere su green pass, su obblighi vaccinali mascherati e su come effettuare le quarantene; il tutto in modo caotico e fornendo indicazioni confuse e contrastanti. Intanto poco o nulla è stato realmente pianificato per agire in fase preventiva, piuttosto che solamente reattiva.

Molte dovevano e potevano essere le iniziative a lungo termine in grado di migliorare la vita degli italiani non solo durante la pandemia ma anche in futuro, ed invece sia il governo Conte bis che quello Draghi si sono limitati a vivere nell’immediato, diramando decreti discutibili, a partire da quello interente le chiusure degli esercizi commerciali effettuate senza una chiara logica (perché chiudere i ristoranti ma tenere aperti i parrucchieri?) e con orari discutibili e opposti al concetto di diluizione dell’affluenza. Per non parlare dell’inqualificabile atteggiamento del governo Conte bis, che ha nei fatti imposto un obbligo vaccinale senza però assumersi le responsabilità del caso, cosa che ha generato un ridicolo e dannoso estremismo tra vaccinisti ed anti-vaccinisti, incapaci entrambi di valutare la situazione col buon senso. Di questi argomenti abbiamo già parlato e non vorremmo tornarci sopra, almeno in questa sede.

Intanto, nonostante i proclami dei vari ministri e primi ministri, già dopo il termine del lockdown, di programmazione a lungo termine e di migliorie strutturali non se ne sono viste.

 

 

Si poteva e doveva cominciare dai trasporti pubblici. Questo settore, trascurato ed in crisi da decenni, è stato affossato dalle conseguenze dell’assurda e banditesca aggiunta in Costituzione del pareggio di bilancio degli enti pubblici da parte del governo Monti, col supporto di quasi tutto il parlamento dell’epoca; un concetto contrario ad ogni basilare dettame economico. A causa di questa norma, non è più stato possibile sostenere un settore critico e fondamentale come quello dei trasporti destinato, per forza di cose, a lavorare in perdita sulle tratte meno appetibili dai privati e quindi da vedersi come servizio sociale. Nelle grandi città vediamo spesso linee di trasporto pubblico su ruota collegare periferie e centro ma non le periferie fra loro, rendendo impossibili gli spostamenti lungo il perimetro esterno; ma anche un parco bus nella maggior parte dei casi vetusto (ed inquinante) e, in generale, non in grado di soddisfare le necessità delle utenze. Era quindi fondamentale dedicare immediatamente risorse per l’acquisto di nuovi autobus, invece di appoggiarsi esclusivamente ai bus turistici (anche se questo ha permesso di tenere a galla quelle aziende in questi due anni), tenendo conto che i progetti a più basso impatto ambientale (vedasi soprattutto la mobilità su ferro) richiedono tempi e studi di fattibilità molto lunghi.

La soluzione dei due governi al tempo del Covid è stata invece quella di dimezzare o ridurre (almeno sulla carta) le capienze degli autobus. Immediatamente, la risposta dei gestori è stata quella di diminuire le corse per assorbire il danno delle minori entrate, col risultato finale che in tutte le grandi città abbiamo continuato a vedere pendolari schiacciati come sardine, specialmente negli orari di punta; alla faccia della prevenzione al contagio.
È ovvio che un investimento sul trasporto pubblico avrebbe generato grandi benefici anche in futuro; oltre all’evidente servizio fornito alla cittadinanza, avrebbe aiutato dal punto di vista dell’ecologia, diminuendo i veicoli privati in circolazione, soppiantati da bus elettrici o ibridi, e dal punto di vista del traffico, uno dei principali motivi di stress per gli abitanti delle città.

 

 

Altro ambito fondamentale su cui dover lavorare sarebbe stato quello della sanità. Se nei primi giorni di lotta al Covid tutti chiamavano “eroi” i dottori e gli infermieri impiegati sia negli ospedali che nei presidi territoriali, ben presto i più si sono scordati di loro, a partire da chi muove le leve del comando. Sono stati numerosi gli episodi incommentabili a cui abbiamo assistito dopo la prima fase dell’emergenza: dagli straordinari non retribuiti, alla scoperta che molte delle mascherine fornite ai sanitari erano appena dei foglietti di tessuto che fornivano poca o nessuna protezione.
Ed invece il Covid non ha fatto che evidenziare quanto sbagliata sia stata la politica dei tagli applicata negli ultimi 10-15 anni (ancora una volta per il pareggio di bilancio), quanto siano fondamentali i presidi locali nell’assistenza immediata al cittadino, e come realizzare grandi strutture possa portare alcuni vantaggi in termini economici creando però strutture troppo farraginose per reagire in tempi rapidi a situazioni inaspettate e rimuove la capillarità del soccorso sul territorio.

 

 

È pacifico che alla base di una buona gestione debba esserci un attento utilizzo della res publica e un controllo sistematico di sprechi ed illeciti. Il volume delle forniture sanitarie rappresenta da sempre un potenziale banchetto per truffatori ed organizzazioni criminali, ma questo non può e non deve essere una scusa per chiudere ospedali, tagliare posti letto o implementare due diverse file nelle strutture pubbliche: o aspetti mesi per farti gli esami diagnostici gratuitamente, o sfrutti il sistema Intramoenia, paghi di tuo e l’esame te lo fai subito. Scandaloso.

Intanto, dopo le iniziali le polemiche, spesso strumentali, su sale Covid allestite di fretta e non utilizzate, oggi si tace sulla proposta di interrompere quel comodo e sensato sistema che quasi tutti i medici di base hanno utilizzato in questi due anni: quello dell’email come metodo per svuotare le sale d’attesa, che si tratti della compilazione di ricette ricorrenti o di piccoli consigli che non necessitino di una visita in loco.

 

 

Una delle principali innovazioni che potevano essere implementate a lungo termine da una situazione che doveva fare di necessità virtù era l’utilizzo diffuso del telelavoro anche nell’amministrazione pubblica legata ad una forte digitalizzazione ed alla connessione fra loro degli innumerevoli database degli uffici pubblici. Era, ed è, una strada fondamentale da seguire, che potrebbe consentire finalmente di legare la produttività al contratto di lavoro (ci dispiace per i sindacati pronti a difendere gli indifendibili, ma è il caso di piantarla) e fornirebbe la spinta necessaria alla digitalizzazione del pubblico di cui si parla da quasi un decennio ma che non accenna a partire, oltre che a velocizzare e snellire tutta la burocrazia tipica di questo settore.
Certamente non è qualcosa che si può realizzare in pochissimo tempo, specialmente se non si hanno a disposizione professionisti di valore come nel settore privato (e la cosa non è certo casuale), ma quantomeno era fondamentale vedere una forte spinta verso questa direzione. Invece questa è completamente assente se non addirittura contraria: il ministro Brunetta vuole vedere tutti gli impiegati pubblici lavorare in ufficio e non ne fa mistero. E di digitalizzazione non se ne parla.

 

 

Rimane il capitolo scuola: qui oltre agli inaccettabili banchi a rotelle, acquistati in blocco senza alcun motivo logico ma buttando dalla finestra soldi che potevano essere impiegati per allestire laboratori, acquistare computer e magari la famosa carta igienica che, ad oggi, è una spesa a carico dei genitori, non si è visto altro (se non gli stessi banchi a rotelle essere mandati in discarica per la loro mancanza di funzionalità). La DAD è stato un esperimento fallimentare, non tanto per lo strumento di per sé, quanto sia per l’impreparazione di molti insegnanti a vivere nel terzo millennio e conoscere le relative tecnologie, che per la mancanza di educazione e rispetto da parte di genitori in primis e dei loro figli in secundis. Similarmente a quanto detto per il telelavoro, se la promozione è garantita anche senza studiare non ci sono investimenti che tengano: il mondo della scuola è destinato a continuare la sua lenta e progressiva decadenza.

 

 

È curioso come molte delle mancanze dei due ultimi governi potrebbero essere sopperite tramite il PNRR ed i soldi che potrebbero arrivare dall’Unione Europea, sempre che si arrivi a completare i progetti e le riforme che ci sono state richieste (vi svelo già d’ora come andrà a finire: non ci riusciremo). Vista la crisi in Ucraina potremmo scamparla ancora una volta pur infrangendo i termini accordatici, ma occorre cambiare testa ed approccio; qualcosa di improbabile sia per colpa dell’attuale classe dirigente che per una popolazione abituata a non prendersi responsabilità e a non saper più fare sacrifici.

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