Le motivazioni storiche della crisi in Ucraina

La tensione nel paese confinante con la Russia non nasce per caso e ha radici trentennali; ecco spiegate le precise responsabilità di USA e NATO.

 

 

Quando nel 1989 il muro di Berlino diviene improvvisamente una vestigia del passato, in molti immaginano che gli scuotimenti non sarebbero terminati presto, ma in pochi hanno un’idea almeno approssimativa dell’enorme impatto mondiale a lungo termine che avremmo vissuto.
Il crollo dell’Unione Sovietica comporta negli anni di Gorbacion e di Eltsin un arretramento drammatico nel perimetro della politica russa che lascia enormi vuoti e sbilanciamenti che avrebbero in breve portato a tumulti locali (come in Cecenia) o a cambi radicali nell’importanza strategica di intere nazioni (tratteremo in un’altro articolo il caso dell’Italia).

Durante la guerra fredda era frequente lo scambio di informazioni e gli accordi non ufficiali fra le opposte superpotenze. Queste comunicazioni avvenivano sottotraccia, in modo nascosto agli occhi delle rispettive popolazioni; e questo era necessario per mantenere aperto un canale di dialogo, necessario e vitale, come ben dimostrato durante la crisi dei missili cubani (e magistralmente rappresentato nel film Thirteen Days), pur tenendo pubblicamente il punto sulle proprie strategie e sulle proprie affermazioni di supremazia.

 

 

Uno degli accordi che nessuno confermerà o smentirà mai è quello dei primi anni ’90: in pratica gli ex-sovietici lasciano mano libera a USA e occidente di espandere la propria sfera d’influenza ovunque in Europa, vista l’impossibilità di mantenere il giogo comunista né con le buone né con le cattive, a patto chenon mettano in difficoltà l’orso russo nella politica interna. Questo accordo, oggettivamente pesantissimo per i russi, avrebbe dato il tempo all’apparato statale di riprendersi lentamente dalla profonda crisi economica e sociale che la Russia stava affrontando senza doversi preoccupare della politica estera. Il prezzo era la completa cessione politica dei territori controllati precedentemente dal Patto di Varsavia al blocco occidentale, che li avrebbero instradati all’economia di mercato. Insomma, la vittoria del capitalismo.

Legata a questo accordo vi è una sola clausola: l’occidente si impegna a non interferire nei paesi confinanti con la Russia, che sarebbero dovuti restare nell’orbita di Mosca. Una clausola logica e legittima se vista nell’ottica della ragion di stato che governa la politica mondiale: consentiva infatti alla Russia di avere degli stati cuscinetto con forti minoranze etniche russe intorno ai propri confini e manteneva aperte e sotto il suo controllo le rotte economiche verso l’estero.
Nel quadro dello scacchiere internazionale, gli occidentali avevano vinto la partita a condizioni insperatamente favorevoli.

 

 

L’accordo viene rispettato per qualche anno, poi nel 1994 inizia una lunga sequela di scelte tese a destabilizzare la politica internazionale; scelte incontestabilmente dirette dalla regia del Partito Democratico statunitense.
La Nato, durante la presidenza USA di Bill Clinton, stinge un accordo con (fra gli altri) Estonia e Georgia per farle entrare nel progetto NATO Partnership For Peace, mirato a coinvolgere i paesi ex-Patto di Varsavia e tendenzialmente inglobarli nella sfera di controllo occidentale. La Russia protesta, ma la situazione è fuori dal suo controllo: nel 2003 la Georgia assiste alla “rivoluzione delle rose”, venti giorni di proteste popolari che portano alla dimissione del presidente Shevardnadze, già Ministro degli Esteri ai tempi dell’URSS, e che segnano l’allontanamento del paese dalla sfera di influenza russa. L’anno seguente l’Estonia entra a far parte della Nato, e Bush Jr. si trova una bella gatta da pelare lasciatagli dall’entourage Clinton.
La posizione geografica della più estrema repubblica baltica è di una importanza strategica non secondaria; è infatti molto più che una semplice spina nel fianco del fronte nord russo, è addirittura la porta di accesso per Mosca e per le altre principali città della Russia europea oltre a fornire una piattaforma avanzata per il lancio di missili e per bloccare l’accesso al Baltico alla flotta russa dislocata a San Pietroburgo.

 

 

I russi non possono restare passivamente a guardare mentre il loro vicinato venire “colonizzato” con la NATO che si piazza lungo i confini. È un lampante attacco alla sicurezza nazionale che non può non provocare una reazione; i russi pianificano le loro mosse ed iniziano la loro controffensiva tre anni più tardi. Per quanto riguarda l’Estonia non possono prendere in considerazione un’opzione militare vista la copertura dell’ombrello NATO, e quindi sperimentano un tipo di guerra non convenzionale che fino ad allora si era vista solo nei film di Hollywood: nelle tre settimane a cavallo di aprile e maggio, l’Estonia subisce una valanga di cyberattacchi che ne mettono in ginocchio le infrastrutture tecnologiche. Non si saprà mai l’esatta entità dei danni arrecati dagli attaccanti (tutti tracciati come provenienti da reti russe); oltre ai più visibili ma meno impattanti hackeraggi che rendono inaccessibili i vari siti istituzionali, è più che probabile che sia stato violato un volume di informazioni confidenziali e sensibili riguardante non solo segreti industriali ed economici, non solo documentazioni critiche per la vita dell’apparato statale estone, ma addirittura numerose procedure, informazioni tecniche ed operative legate all’apparato militare nazionale e della Nato.
Ovviamente si cerca di correre ai ripari, ma ormai i buoi sono scappati dalla stalla; e se da un lato l’evento viene visto come una vittoria della cybersicurezza occidentale per aver mitigato l’impatto degli attacchi, in realtà l’Estonia paga un prezzo altissimo in termini economici e di dati trafugati, e solo il supporto della NATO argina parzialmente i danni.

 

 

Nel 2008 George W. Bush, ratificando quanto iniziato dal suo predecessore, offre a Georgia e Ucraina la possibilità di entrare nella NATO entro la fine dell’anno. Dopo pochissimo scoppia una guerra civile in Georgia con Ossezia ed Abkhazia che si rivoltano allo stato centrale, supportate prima indirettamente poi direttamente dalla Russia. L’esercito russo finirà per entrare nel territorio Georgiano conteso, occupando però anche alcune zone non direttamente interessate dal conflitto. L’ovvio esito dello scontro porterà alla creazione dei mini-stati di Ossezia ed Abkhazia, riconosciuti praticamente solo dalla Russia e completamente nella sua sfera d’influenza; ma soprattutto, Dimitri Medvedev affermerà che “proteggere la vita e la dignità dei nostri cittadini, ovunque essi si trovino, è una priorità indiscutibile per la nostra nazione”. Questo segnerà l’inizio di una nuova fase politica internazionale, con una Russia che ritornerà a quell’interventismo già sperimentato fra gli anni ’50 e gli ’80 in piena guerra fredda. Ad oggi la Georgia non è ancora entrata a far parte della NATO, ma Lavrov, Ministro degli Esteri russo, nel 2019 ha avvertito che se questo dovesse avvenire ci saranno importanti ripercussioni. La NATO ha nel corso del 2021 riaffermato l’intenzione di includere la Georgia fra i suoi membri.

 

 

Ed arriviamo infine alla crisi Ucraina. Fin dal 2008, Vladimir Putin afferma che l’alleanza fra Ucraina e NATO pone una diretta minaccia alla Russia; ed oggettivamente come dargli torto? L’Ucraina si inserisce come uno stiletto nel ventre molle del territorio russo e blocca quasi completamente l’accesso al Mar Nero. Fra Estonia, Georgia ed Ucraina, la Russia ha tutte le ragioni per sentirsi accerchiata e sotto attacco.
Nel 2008 però le elezioni presidenziali vedono ritornare alla guida del paese il filo-russo Yanukovych al posto della coppia Yushchenko-Tymoshenko, decisamente filo-occidentale. Negli anni seguenti Yanukovych riavvicina l’Ucraina alla Russia, pur ufficialmente abbracciando una politica non allineata, tanto che la tensione internazionale si smorza; nel 2014 però il Presidente ucraino viene costretto a scappare ed a rifugiarsi in Russia da una serie di violente dimostrazioni di piazza che avvolgono Kiev. È altamente probabile che dietro a quelle manifestazioni, nate su legittime richieste di democratizzazione del paese, vi fosse la mano della CIA di Obama: sulla falsariga di quanto fatto in medio oriente fra il 2010 e il 2012, una campagna destabilizzatrice avrebbe creato tutti i presupposti per questa rivolta popolare che nei piani dell’arrogante strategia dei democratici statunitensi avrebbe dovuto consegnare agli USA tutta una serie di nazioni strategicamente o economicamente rilevanti. Una strategia concepita in modo miope, senza considerare gli aspetti sociali e culturali delle nazioni impattate oltre che le relazioni con le potenzie locali e globali; una strategia che ha avuto le conseguenze che per i paesi islamici ben conosciamo e che stiamo ora vedendo in Europa.

Nei mesi seguenti, in Ucraina si scatena il caos: prima avvengono degli scontri armati nella zona del Donbas, quella a più densa presenza di cittadini di etnia russa; qui le milizie filo-russe (e molto probabilmente finanziate direttamente da Mosca) respingono l’esercito ucraino e occupano il territorio. Poi la Russia invade ed annette la Crimea, territorio di fondamentale importanza per la presenza delle basi navali dove è stazionata la sua flotta del Mar Nero. Nel frattempo si assiste ad un indecoroso balletto dove il nuovo leader ucraino afferma prima di non voler entrare nella NATO per poi fare un completo dietro-front dopo pochissimi giorni, supportato da Obama. Quest’ultimo afferma di voler infatti portare una maggiore presenza della NATO nell’est Europa; un’affermazione che aggredisce ogni logica di bilanciamento strategico delle superpotenze, e che segue la stessa scuola imposta da Kennedy quando, piazzando missili nucleari in Turchia, diede origine alla crisi dei missili cubani della quale abbiamo già accennato.

 

 

Dopo un processo di pacificazione effettuato dal tanto vituperato Donald Trump, il quale nel suo quadriennio ha spento il fuoco su cui soffiava la sinistra statunitense, gestendo le crisi aperte grazie a dialoghi intrapresi con Putin e con il leader nord-coreano Kim Jong-un ma identificando il nuovo nemico globale nella Cina di Xi Jinping, oggi la NATO a trazione Joe Biden rialza la tensione.
Dopo aver chiamato “killer” il presidente russo (qualcosa di impensabile nel quadro della diplomazia internazionale), Biden e gli alti esponenti NATO stanno spingendo per l’ingresso ufficiale dell’Ucraina nell’Organizzazione, forzando la mano su qualcosa di estremamente pericoloso, che magari non sfocerà in una guerra globale o nucleare ma che porterà ad un ulteriore periodo di conflitti locali e ritorsioni economiche delle quali noi europei stiamo già pagando il dazio (si veda la disponibilità ed il costo del gas russo, dal quale noi dipendiamo ma che per gli USA non è un fattore nell’equazione geopolitica).

La crisi USA-Russia, giocata tutta in Europa, è quindi lungi dall’essere finita. E se l’augurio è quello di vedere un’Unione Europea defilarsi dalla posizione succube nei confronti degli Stati Uniti, posizione unicamente deleteria, la realtà è che non è possibile fare ipotesi su come questa situazione possa evolvere nel breve e nel medio periodo.

Per finire, una nota di colore. Combat Mission Black Sea è un videogioco di strategia ottimamente realizzato, uscito nel finire del 2014,  che immaginava una serie di scontri tra le forze NATO e quelle russe proprio in Ucraina. Lo abbiamo consigliato qualche Natale fa; qui trovate la recensione del suo gemello Cold War, uscito recentemente e dedicato al periodo della guerra fredda.

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