I Diari di Andy Warhol: la recensione

Quanto è umano un artista? Quanto è fragile? Quanto è diverso? A queste e ad altre domande risponde una delle migliori serie dell’anno.

 

I diari di Andy Warhol

 

Era da qualche tempo che Netflix non caricava qualcosa di importante e così, probabilmente solo per la legge dei grandi numeri, in mezzo al mare magnum di feci, spunta a sorpresa un fiore. I Diari di Andy Warhol è una mini docu-serie di sei episodi semplicemente perfetta. Riporta in chiave visual l’omonimo libro di 1200 pagine che ha preso vita nel lontano 1976, quando l’iconico inventore della Pop Art chiede alla sua assistente Pat Hackett di trascrivere, dietro dettatura o condivisione telefonica, le emozioni di ogni sua singola giornata. Un lavoro che la donna continua a fare fino al 1987, anno in cui Warhol saluta questo pianeta.

Il regista, autore e produttore Andrew Rossi racconta così le paure di un figlio di immigrati lemchi, ucraini dei Carpazi polacchi, nato e cresciuto in una Pittsburgh povera e omofoba in cui la sua sessualità non è contemplata né tollerata. I disturbi della personalità dell’artista, un uomo che ha vissuto tutta la vita con un gatto morto in testa, sono evidenti, ma evidenti sono anche i suoi sentimenti. Warhol non può essere gay e quindi non può essere amato e per questo, per sopravvivere, si barcamena tra un mal sopito senso di colpa, che lo porta a rinunciare al sesso (per alcuni non aveva il pisello), e l’evidente attrazione per gli uomini fascinosi.

La serie di Netflix è unica nel suo genere, non solo per le tante opere d’arte mostrate che, francamente, un po’ hanno rotto le scatole (chi non ha mai visto un barattolo della Campbell o una Marylin?). La differenza la fanno i tantissimi contributi inediti dei filmini delle vacanze, dei party nei club più esclusivi di New York e di quella sua casa così zuppa di solitudine. Non solo. Godranno non poco gli amanti della Grande Mela che potranno viaggiare indietro nel tempo fino agli anni sessanta toccando con mano (o almeno con occhi) la vibrazione artistica di quel periodo in una città che era, senza dubbi, il centro del mondo. Sesso, droga, talento, lampi di genio e crolli di nervi: il cocktail è servito.

Grande attenzione è data alla presunta storia d’amore tra Andy e il produttore di Hollywood John Gould, eternamente indeciso tra l’abbandonarsi al sentimento o il mascherare per sempre la sua omosessualità. Se le opere di Warhol sono struggenti, molto si deve a questo tira e molla che avrebbe sfiancato chiunque. L’ingresso di Basquiat, nella vita dell’artista e nella serie, poi, è il cambio di marcia che consacra il prodotto. L’elettricità di quella mente giovane (e fuori fase) riporta in vita il corpo morto di un personaggio che era diventato la custodia di sé stesso. Le sequenze in cui i due si conoscono e si annusano sono incredibili, e quelle in cui producono insieme fanno quasi ridere di gioia: “Jean-Michel non dipinge con me, cancella le mie cose. E spesso sono le cose più belle! Lo adoro”.

 

I diari di Andy Warhol

 

Ultimo “attore” della serie è l’HIV che irrompe nel documentario con la stessa violenza con cui è entrato nelle vite di molti gay degli anni ottanta. Una brusca frenata di un’intera comunità che aveva impiegato decenni a far sentire la sua voce e che ora torna ad essere vista come un branco di freaks che passano le loro giornate a sniffare cocaina e a fare incularella. Il segno lasciato su Andy Warhol è devastante ma la lezione che tramanda a tutti noi, alla luce dell’evoluzione della società, è necessaria. Poco più di sei ore di docu-fiction per rinfrescarsi le pupille degli sgargianti colori di quell’epoca e la mente dall’atavica paura del diverso.

 

I Diari di Andy Warhol, 2022
Voto: 8
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