I motivi dei disordini dei giorni scorsi non sono ancora del tutto chiari. Si è trattato di qualcosa di spontaneo o di organizzato?
Il Kazakistan è una di quelle repubbliche ex-sovietiche che, ad essere sinceri, di democratico hanno molto poco; basti pensare al nome della capitale, rinominata da Astana in Nur-Sultan nel 2019 in onore del presidente uscente Nursultan Nazarbaev. La libertà di stampa non esiste e le informazioni sono da sempre filtrate.
Con queste premesse non è facile capire con esattezza cosa sia successo, e perchè, nel territorio kazako. Quello che sappiamo è che nei primi giorni di Gennaio una rivolta si è scatenata nelle strade e che per essere contenuta è stato immediatamente mobilitato l’esercito, e che dopo pochi giorni gli alleati russi sono stati chiamati a dare man forte per ripristinare l’ordine. Il bilancio ufficiale, ad oggi, è di 225 morti e oltre 5800 arresti.
Sono molte le voci e le teorie su quale sia la motivazione di questa rivolta, e spesso le notizie giunte in occidente sono contrastanti. Questo non è casuale; il Kazakistan è uno dei paesi chiave nell’Asia centrale ed i suoi depositi minerari sono strategici e di fondamentale importanza per la Russia. Oltre alle importantissime miniere di ferro e carbone, il paese infatti è uno dei maggiori produttori al mondo di petrolio e gas naturali; e come se non bastasse, nel sotto suolo sono anche presenti ricchissimi giacimenti di uranio ed altri materiali rari.
Insomma, chi controlla il Kazakistan ha accesso a tutte le fonti di energia tradizionale ed ha una via di accesso al cuore del territorio russo.
Ovvio quindi che per la Russia il Kazakistan sia un partner strategico, da non perdere per nessun motivo. Questo spiega l’intervento militare a supporto del presidente Toqayev; e la tesi del tentato colpo di stato, pianificato forse dal Primo Ministro Smaiylov con il supporto di Nazarbaev o di enti esterni, potrebbe avere un senso in virtù di quanto sta succedendo in Ucraina.
Se prendiamo per buona questa tesi, il tentativo da parte degli USA di destabilizzare il governo locale sostituendo la leadership kazaka con qualcuno di più vicino alle posizioni dello zio Sam rientrebbe pienamente in una strategia che vede un accerchiamento della Russia lungo tutto il suo confine, e che si basa su di una lunga tradizione di sostituzioni dell’estabilshment locale, come abbiamo visto in varie parti del globo.
È pur vero che il Kazakistan fin dalla sua indipendenza ha tenuto posizioni non allineate, legato alla Russia ma aperto all’occidente e alla Cina. Quindi potrebbe essere stato semplicemente un regolamento di conti fra il vecchio (Nazarbaev è ancora una presenza oscura dietro le quinte ed è al momento irrintracciabile) ed il nuovo (Toqayev, appunto). Ma lo stesso Toqayev sta affermando in queste ore che il tentato colpo di stato sia stato orchestrato da “forze straniere”, cosa che si ricollega allo scenario prima descritto.
Già questo basterebbe a rendere complessa la lettura di quanto successo negli scorsi giorni, ma ci sono almeno altri due fattori da considerare. Il primo è che il Kazakistan è uno stato a forte componente musulmana, e partecipa all’Organizzazione Della Cooperazione Islamica. Alcune fonti riportano che fra i rivoltosi più determinati ci sarebbero quelle frange islamiche che si stima abbiano fornito all’ISIS oltre 500 guerriglieri, e che potrebbero voler far ripartire quel movimento radicale ed intollerante che sta scuotendo il mondo da oltre vent’anni. Con i Talebani che hanno preso il controllo dell’Afghanistan, non è irreale pensare che altri gruppi fondamentalisti abbiano trovato rifugio in quel territorio e stiano ricostituendo le proprie cellule per scatenare una nuova offensiva nelle nazioni dove l’Islam è presente. Anche questo farebbe coppia con le affermazioni di Toqayev sulle ingerenze provenienti da fuori confine.
Ma l’ultimo fattore è quello che oggettivamente ribalta le carte in tavola, e lascia spiazzati. Il Kazakistan ha visto un improvviso rialzo dei prezzi legati agli approvvigionamenti energetici, e le dimostrazioni in piazza sarebbero partite da questo considerando però anche uno scontento popolare molto diffuso e legato ad una trentennale gestione totalitaria del potere. Su questo però i pareri sono discordi; sia gli inviati che i residenti stranieri riportano informazioni contraddittorie. Quello che è sicuro è che dopo i primi scontri violenti la protesta in piazza è fortemente scemata a Nur-Sultan, ossia dove vive la classe più abbiente del paese e che non ha motivi di supportare una qualsiasi forma di insurrezione, mentre ad Almaty – dove è più rappresentata la classe operaia come lo sono i gruppi islamici organizzati – la situazione si è aggravata.
Sulla possibilità di questo scenario è bene spendere qualche parola: in Kazakistan i prezzi di gas e petrolio non si sono alzati solo a causa della speculazione globale legata alla transizione verso fonti di energia pulita, ma anche (soprattutto) per via del crescente numero di società e privati che hanno spostato dalla Cina le loro batterie di server dedicati all’estrazione delle cryptovalute. Da quando il dragone cinese ha stretto le sue maglie su questa forma di denaro che sta divorando le fonti energetiche planetarie fornendo un ritorno puramente virtuale, i cryptominers hanno approfittato dei bassi prezzi dei datacenter kazaki per trovare una nuova terra fertile dove spostare i propri affari, catastrofici in termini di impatto ambientale.
Insomma, al pari degli scenari che vedono il coinvolgimento di potenze estere, altrettanto valore è questa che vede una dimostrazione di piazza più o meno spontanea, partita dai minatori di Almaty, che si sarebbe progressivamente allargata e localmente è diventata violenta.
A distanza di due settimane, non è affatto chiaro cosa sia successo in Kazakistan nè cosa succederà nel breve periodo. Il paese asiatico è sicuramente oggetto di una turbolenza in grado di sconvolgere gli equilibri dell’economia russa, ed in un periodo di tensioni così forti con USA e Nato è auspicabile che almeno quel fronte si tranquillizzi per permettere alle forze politiche operanti in Ucraina di trovare una via d’uscita ragionevole per entrambi gli schieramenti e che non metta nessuno spalle al muro; un esito, quello dello scontro frontale, che aprirebbe le porte ad un drammatico risultato su scala locale e mondiale.